Educare al fallimento
Matteo Lancini, è docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università Bicocca e presidente della Fondazione Minotauro. Da anni si occupa di adolescenti, di quel disagio che si manifesta con i disturbi alimentari per le ragazze, con il ritiro sociale per i maschi e arriva a gesti estremi, suicidi a volte addirittura mascherati da incidenti stradali. E troppo spesso lì, in mezzo sempre quella parola: «fallimento».
Che senso ha la parola «fallimento» per ragazzi appena affacciati alla vita?
«Il fallimento? È tutto. Oggi la crescita delle nuove generazioni non ha più a che fare con i vecchi modelli educativi del passato. L’educazione era obbedienza, prima il dovere poi il piacere.
Si cresceva per opposizione, per trasgressione. “Adolescenza“ significava soprattutto liberarsi dal giogo dei genitori: confliggere per dimostrare chi si è».
Oggi invece?
«Ora si cresce in una società che promuove moltissimo la competizione, il successo personale, l’individualismo, con i bambini iperstimolati fin da piccoli secondo aspettative non solo familiari ma scolastiche e della società in generale dove conta il successo e la spettacolarità, dove conta l’estetica, la bellezza. Questo fa sì che quando arriva, l’adolescenza si caratterizza per un crollo di aspettative, di quegli ideali talmente elevati per i quali non si è mai all’altezza. In altre parole, oggi in adolescenza è scomparsa la trasgressione, si cresce per delusione rispetto a modelli. Quindi il tema del fallimento c’è, ed è verso se stessi, perché quelle aspettative sono state interiorizzate durante l’infanzia e spinge ragazzi narcisisti ad attaccare se stessi. Non solo.
Gli adolescenti scontano oggi una fragilità adulta senza precedenti. Internet e la pandemia, sono gli unici due schermi su cui gli adulti proiettano tutti i problemi».
Lei ripete spesso che genitori e scuola devono «educare» al fallimento. Come?
«Significa educare al fatto che la vita è fatta di inciampi, fallimenti. Significa smettere di dire che non si deve star male, di rimuovere la morte, la sofferenza.
L’angoscia adulta invece non consente ai bambini di parlare delle proprie fragilità. A casa, a scuola nessuno parla di suicidio, cosi i ragazzi non ne parlano mai. E dire che le famiglie oggi ascoltano molto più di ieri, ma non sappiamo ascoltare il dolore, l’inciampo. Quindi, invece di sequestrare il solito cellulare la sera, a cena, chiedere a un figlio se pensa di suicidarsi o vivere».
Un messaggio forte…
«I suicidi sono la seconda causa di morte tra i giovani. La prima sono gli incidenti stradali che a volte sono suicidi. Non se ne parla abbastanza. Gli adulti devono identificarsi su come funzionano le nuove generazione che non hanno bisogno di adulti che danno regole e basta ma che siano capaci di accettare che la costruzione della personalità passa solo attraverso inciampi e fallimenti».
E la scuola?
«C’è chi pensa che una bocciatura e un bel 4 educhino al fallimento ma non è più questo il modo per la natura narcisista dei ragazzi. Quindi gli insegnanti possono dire “ai miei tempi un 2 non faceva male a nessuno“.
Ed era così. Oggi è cambiato tutto, il consumo di sostanze è lenitivo, antidolorifico e non trasgressivo, si cresceva in un modo diverso, non c’era internet.
La società che abbiamo creato è questa, dove i bambini vengono adultizzati precocemente, non devono mai dirci che stanno male, meglio se non hanno compagni con qualche difficoltà. E l’unico intervento educativo resta “spegni il cellulare a cena“».