Data Center: è necessaria una regolamentazione rigida sul consumo di suolo
Il dibattito sulla localizzazione dei data center, finora confinato in un ambito eminentemente tecnico-industriale, viene finalmente ricondotto all’interno di una cornice giuridica che assume la “risorsa suolo” come asse portante di ogni scelta di politica territoriale.
Meritevole d’attenzione è l’attività che viene svolta oggi in Commissione Territorio infrastrutture e mobilità di Regione Lombardia, dove finalmente si approccia, con le prime audizioni, al tema dei data center guardando lo sfruttamento del suolo e delle risorse.
Sede naturale per ospitare eventuali interventi normativi è sicuramente la Legge Regionale 11 marzo 2005, n. 12 (legge per il governo del territorio).
È importante assumere quale punto di partenza il fatto che i data center non possano svilupparsi in maniera sconsiderata sul territorio lombardo.
In tale ottica, auspico che ciò possa dare il via a un percorso per l’introduzione di una disciplina che abbia quale obiettivo prioritario l’individuazione di aree idonee dismesse o sottoutilizzate, con mappatura georeferenziata, così da impedire la sottrazione di terreni agricoli, produttivi e commerciali e redistribuire equamente sul territorio regionale il carico energetico e idrico connesso alle infrastrutture digitali.
La premessa teorica di tale concetto è la qualificazione costituzionale del suolo come bene comune unitariamente inteso: non soltanto substrato fisico ma fattore di produzione, paesaggio, memoria storica e deposito di servizi ecosistemici.
Ne discende l’affermazione, con rango di principio generale, della regola del consumo netto pari a zero e, in particolare, del divieto di sottrazione di suolo agricolo, manifatturiero o destinato al commercio in assenza di un rigoroso test di prevalenza dell’interesse pubblico.
Questo obiettivo, per essere raggiunto, esige la dimostrazione – affidata a uno studio di fattibilità territoriale certificato da un soggetto terzo indipendente – che non sussistano alternative localizzative in aree dismesse o compromesse, già infrastrutturate sotto il profilo della rete elettrica e della connettività. Nel contempo, il proponente dovrebbe essere gravato dall’onere di produrre un bilancio ecosistemico ex ante che quantifichi la perdita di redditività agricola o commerciale, preveda misure di compensazione ambientale e indichi l’estensione di terreno oggetto di recupero ecologico in rapporto almeno uno a uno rispetto alla nuova superficie impermeabilizzata.
Questo primo livello di protezione, di carattere sostanziale, trova rafforzamento in un presidio procedimentale: la fusione, in un unico procedimento autorizzatorio, del titolo edilizio, della valutazione paesaggistica, della verifica di compatibilità energetica e della autorizzazione unica ambientale. L’unità temporale e formale di tali verifiche impedisce che un parere favorevole isolato, reso in assenza del quadro complessivo degli impatti, sterilizzi la funzione conformativa dell’interesse pubblico.
Sul versante della perequazione energetica, il legislatore dovrebbe inserire due strumenti complementari.
Il primo è certamente un “piano di bilanciamento territoriale”, che diviene condizione indefettibile per la realizzazione di impianti la cui richiesta di potenza superi la soglia definita annualmente dall’Autorità regionale per l’energia. Attraverso tale piano, il gestore deve dimostrare che almeno la metà del fabbisogno aggiuntivo sarà coperta da fonti rinnovabili ubicate entro un raggio massimo di 150 km, oppure mediante l’acquisto di quote di surplus prodotto in aree meno infrastrutturate: in tal modo si pone un argine all’accentramento dei consumi elettrici nelle zone già esposte a stress infrastrutturale e si incentiva, contestualmente, la crescita di comunità energetiche in territori periferici o montani.
Il secondo strumento potrebbe essere l’ “indice di carico energetico territoriale”, calcolato annualmente per ciascun ambito provinciale sulla base della potenza installata, della disponibilità di acqua industriale per il raffreddamento, del grado di impermeabilizzazione e della capacità residua delle reti. Al raggiungimento della soglia di saturazione scatta un meccanismo di moratoria automatica, che blocca il rilascio di nuovi titoli abilitativi fino al potenziamento dell’infrastruttura o alla riduzione dei consumi mediante interventi di efficienza.
Oggi vi è la necessità di valorizzare quei contesti dove sia possibile attuare una rigenerazione urbana. In questo senso sarebbe da valorizzare il principio per cui l’intervento in un capannone abbandonato o in un sito industriale dismesso beneficia di una corsia preferenziale, a condizione che il progetto preveda il riuso dell’energia termica di scarto per reti di teleriscaldamento o per iniziative agro-alimentari a filiera corta, così da trasformare un potenziale costo ambientale in un volano di economia circolare. Ne deriva un meccanismo di “compensazione energetica” che affianca la compensazione ecologica tradizionalmente riferita al ripristino del suolo, configurando un paradigma in cui l’efficienza diventa elemento strutturale della legittimità urbanistica.
Sul piano della responsabilità sarà necessario prevedere un doppio binario sanzionatorio. All’illecito amministrativo, sanzionato con la revoca del titolo e con la rimessa in pristino, si dovrebbe affiancare una sanzione pecuniaria progressiva, parametrata non alla superficie ma ai gigawattora consumati in eccedenza rispetto agli impegni assunti nel piano di bilanciamento. Tale scelta, coerente con il principio europeo “chi inquina paga”, dovrebbe colpire non la mera dimensione fisica dell’impianto ma l’uso effettivo delle risorse, scoraggiando comportamenti opportunistici basati su stime energetiche di comodo e premiando i gestori più virtuosi sotto il profilo dell’efficienza.
Un altro aspetto per garantire la trasparenza potrebbe essere quella di istituire un registro pubblico dei fabbisogni e dei prelievi, alimentato dai dati trasmessi sia dai gestori della rete che dai titolari degli impianti, prevedendo altresì un obbligo di aggiornamento (almeno trimestrale) e la pubblicazione degli open data relativi a localizzazione, potenze impegnate, flussi idrici e misure compensative, per permettere alle comunità locali, ai soggetti economici e alla stessa amministrazione di vigilare in tempo reale sul rispetto delle soglie energetiche e sull’evoluzione dell’indice di carico territoriale, riducendo l’asimmetria informativa che sovente ha impedito un controllo partecipato degli impatti.
È necessario ribaltare l’idea che l’economia dei dati possa adagiarsi su un assetto regolatorio di mera facilitazione infrastrutturale.
Il suolo e l’energia, beni per loro stessa natura finiti e presidiati da interessi pubblici primari, devono essere parametri di progettazione ex ante e non ostacoli da gestire ex post. L’insediamento dei data center, lungi dal rimanere contingenza tecnica, si trasforma in banco di prova di un diritto urbanistico-ambientale capace di coniugare innovazione digitale, tutela delle funzioni produttive e riequilibrio territoriale, secondo una logica in cui la competitività si misura non solo in termini di capacità computazionale ma anche – e soprattutto – in termini di sostenibilità complessiva e di equa distribuzione dei benefici e degli oneri fra le diverse comunità locali.