La pronuncia n. 5602 del 27 giugno 2025 emessa dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato, pubblicata con dispositivo il 29 maggio 2025 ed avente ad oggetto i gravami principali di RAI-Radiotelevisione Italiana S.p.A., del Comune di Sanremo e di RAI Pubblicità S.p.A., nonché gli appelli incidentali proposti dalle stesse parti e da JE S.r.l., costituisce oggi il punto d’approdo – forse non definitivo ma certo di capitale importanza – di un contenzioso che da oltre due anni agita il mercato degli eventi culturali e dell’entertainment nazionale, interrogando gli interpreti sui confini tra concessione di bene immateriale, appalto di servizi, contratto attivo e disciplina dell’evidenza pubblica dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36.

Il Consiglio di Stato, rigettando i ricorsi proposti avverso la sentenza n. 843/2024 del TAR Liguria, ha confermato l’illegittimità dell’affidamento diretto al concessionario storico RAI dello sfruttamento del marchio “Festival della Canzone Italiana” e della correlata organizzazione delle edizioni 2024 e 2025, riaffermando la necessità che, per le future edizioni, il Comune ricorra a una procedura comparativa coerente con i principi di trasparenza, concorrenza e proporzionalità di cui agli artt. 1, 2 e 3 del nuovo Codice.

Il cuore della decisione risiede innanzi tutto nella risposta resa alla questione pregiudiziale della legittimazione ad agire di JE S.r.l., operatore discografico e di live entertainment privo di autorizzazione radiotelevisiva. Superando le eccezioni di RAI e del Comune, i giudici hanno richiamato la consolidata giurisprudenza sull’impugnativa degli affidamenti diretti, secondo la quale l’operatore “di settore” è legittimato a dolersi della mancata gara pur senza avervi partecipato, perché la plateale esclusione concorrenziale integra ex se un vulnus immediato alla sua libertà di impresa. Non assume rilievo la mancanza di licenza di trasmissione televisiva, in quanto l’oggetto primario della convenzione impugnata non coincide con il broadcasting bensì con la gestione della kermesse musicale in quanto tale, elemento che – nella prospettiva privatistica – dà sostanza economica al marchio registrato dal Comune.

Sgombrato il campo dal profilo processuale, il Consiglio di Stato ricostruisce la natura giuridica del rapporto controverso, qualificandolo quale contratto attivo di concessione d’uso di un bene immateriale di titolarità pubblica (il marchio “Festival di Sanremo”) mediante il quale l’amministrazione ottiene un corrispettivo economico a fronte del trasferimento al concessionario del diritto di sfruttamento commerciale dell’evento. Non si tratta, pertanto, di “concessione di servizi” ai sensi degli artt. 174 ss. del d.lgs. n. 36/2023 – categoria che presuppone il trasferimento al concessionario del rischio operativo riferito alla prestazione di un servizio pubblico in favore di terzi – né di appalto escluso ex art. 56, comma 1, lett. f), in tema di programmi audiovisivi, poiché la trasmissione televisiva costituisce mera utilitas accessoria rispetto al nucleo patrimoniale dell’accordo, centrato sul licenziamento del marchio.

La conseguenza è duplice: da un lato, non trova applicazione la disciplina cogente del Codice in tema di procedure tipizzate (artt. 50 o 187), dall’altro non per questo l’amministrazione è libera di negoziare in trattativa privata, giacché l’art. 13, comma 5, impone che i “contratti esclusi” – categoria nella quale ricadono i contratti attivi – siano comunque affidati nel rispetto dei principi cardine di concorrenza, imparzialità e “accesso al mercato”.

Forte di questa ricostruzione, il Consiglio di Stato demolisce l’argomento – ritenuto dirimente dagli appellanti – fondato sull’asserita “inscindibilità” tra marchio comunale e format televisivo inventato dalla RAI.

Il Festival, chiarisce la sentenza, appartiene alla sfera giuridica del Comune in quanto manifestazione canora; il format è un prodotto creativo dell’emittente, ma esso non genera una comunione di diritti sulla denominazione, né la trasformazione del marchio in segno distintivo esclusivo della concessionaria. Gli eventuali diritti d’autore o i profili di secondary meaning del marchio, ammesso che si siano maturati, non legittimano ex se l’elisione del confronto concorrenziale, perché la disciplina nazionale e unionale in materia di proprietà intellettuale si coordina – non si sovrappone – con quella sull’affidamento di beni pubblici. Da ciò l’ulteriore riflesso, di grande impatto sistemico, per cui non sussistono ragioni di infungibilità tali da giustificare il ricorso alla trattativa privata ex art. 41 R.D. 827/1924: la lunga partnership con RAI e il successo editoriale del programma non integrano circostanze “speciali ed eccezionali”, né equivalgono a un diritto soggettivo al rinnovo.

Altrettanto significativa è la parte della motivazione dedicata al rapporto con l’art. 50 del nuovo Codice. Pur muovendosi su un piano soltanto incidentale, i giudici ribadiscono che tale disposizione – che consente l’affidamento diretto di contratti di modesto valore entro la soglia di 140.000 euro – non si estende automaticamente ai contratti attivi di concessione di beni, perché il legislatore del 2023 ha tracciato per le concessioni (attive o passive) un perimetro speciale, incentrato sull’art. 187, il quale prescrive quantomeno una procedura negoziata previa consultazione di dieci operatori. Il Comune, avendo omesso qualunque forma di interlocuzione con il mercato e avendo respinto “per carenza di requisiti soggettivi” l’unica manifestazione di interesse ricevuta senza motivare sulla sussistenza dell’interesse pubblico alla non separazione fra organizzazione e messa in onda, è dunque incorso in violazione dei principi generali.

Il TAR aveva ritenuto sufficiente, in via conformativa, un avvio di manifestazione di interesse aperta; il Consiglio di Stato conferma tale approdo, ma puntualizza che ciò non equivale a sindacare ex ante l’opportunità delle future scelte contrattuali, lasciate alla discrezionalità comunale purché esercitata entro il perimetro dei principi concorrenziali.

Non meno rilevante si presenta l’esito sulle pretese risarcitorie di JE: il Consiglio di Stato, richiamando la giurisprudenza sull’onere di prova della chance, esclude che la sola illegittimità dell’affidamento diretto basti a fondare la compensatio lucri cum damno, poiché l’impresa ricorrente non ha dimostrato la probabilità concreta di risultare aggiudicataria in un ipotetico procedimento competitivo, specie in assenza di un raggruppamento già costituito con un broadcaster abilitato. La perdita di chance rimane quindi priva di quantificazione e, di conseguenza, non ristorabile, se non eventualmente in un futuro giudizio che segua all’espletamento della procedura comparativa.

Sotto il profilo processuale la decisione si segnala altresì per avere respinto l’intervento ad opponendum di APS e Codacons, ritenuto carente di un interesse qualificato, perché la vicenda non coinvolge il servizio pubblico radiotelevisivo in sé, ma un asset patrimoniale del tutto distinto dall’adempimento degli obblighi di servizio universale. Viene così riaffermato il principio per il quale l’accesso al giudizio amministrativo rimane condizionato a un interesse “concreto, specifico e diretto”, non essendo sufficiente la generica tutela di categorie indifferenziate di utenti o consumatori.

Quanto agli effetti, la sentenza conferma l’impianto modulato dal TAR: annullamento dei provvedimenti di affidamento e delle delibere presupposte, salvezza delle convenzioni relative alle edizioni 2024 e 2025 per ragioni di proporzionalità e di continuità dell’azione amministrativa, ma con l’obbligo – non testuale, bensì logicamente discendente dal dictum – di rideterminarsi secondo i principi dell’evidenza pubblica per le edizioni successive.

È un equilibrio di compromesso che tutela gli interessi economico-commerciali consolidati e al contempo ristabilisce la cornice concorrenziale per il futuro, evitando che il pregresso radicamento di un operatore si cristallizzi in un monopolio di fatto sullo sfruttamento di un bene immateriale pubblico.

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