Quando l’urbanistica inciampa nella politica: proposte per un Albo Nazionale e sorteggio pubblico dei commissari

La vicenda milanese che in questi giorni sta monopolizzando il dibattito pubblico, con oltre 70 indagati e 6 richieste di misura cautelare nell’ambito dell’inchiesta sull’urbanistica cittadina – inchiesta che lambisce il Sindaco, l’Assessorato alla rigenerazione urbana, professionisti di fama internazionale e la stessa Commissione comunale per il paesaggio – impone un ripensamento organico delle procedure di nomina dei membri di tutti gli organi tecnici consultivi in materia edilizia e territoriale.
La fragilità dell’attuale assetto, emersa nelle chat e nei rapporti incrociati con gli operatori privati descritti dagli inquirenti, rivela non solo un problema penalmente rilevante, ma soprattutto un vulnus istituzionale: la permeabilità di tali commissioni alle interferenze della politica locale e alle pulsioni speculative del mercato immobiliare, con conseguente appannamento del principio di imparzialità che l’art. 97 Cost. richiede all’Amministrazione.
A ben vedere, l’architettura normativa che sovrintende a queste nomine resta ancorata a schemi elaborati in un’epoca in cui la trasformazione urbana possedeva un peso marginale rispetto a quello odierno.
La Legge urbanistica del 1942, pur più volte novellata, non offre criteri stringenti; il d.P.R. 380/2001 demanda ai regolamenti edilizi comunali la disciplina puntuale; il d.lgs. 42/2004 in materia paesaggistica affida la scelta dei commissari al sindaco o al presidente della provincia senza prevedere veri filtri sostanziali. Il d.lgs. 39/2013, che ha introdotto il regime di inconferibilità e incompatibilità, si applica soltanto a un novero limitato di posizioni apicali e tace sulle figure tecniche chiamate a esprimere pareri che, di fatto, incidono sulla redistribuzione di ingenti rendite fondiarie.
L’assenza di un esplicito divieto di esercitare la professione nel territorio per il quale il commissario formula i pareri rappresenta il punto più critico, perché consente il radicarsi di un fisiologico conflitto d’interessi latente, nutrito dalla naturale tendenza di ogni professionista a mantenere rapporti con committenti privati nello stesso contesto in cui valuta progetti e varianti.
Né la soft law è finora bastata a colmare tale lacuna.
Il Piano Nazionale Anticorruzione, nell’aggiornamento approvato dall’ANAC a gennaio 2025, dedica un intero capitolo alla gestione dei conflitti d’interesse e sollecita misure più stringenti, ma le sue indicazioni, prive di immediata cogenza, vengono applicate a macchia di leopardo: accanto a regolamenti comunali virtuosi sopravvivono prassi opache, mentre il meccanismo di autocertificazione previsto dall’art. 15 del d.lgs. 39/2013 risulta inadeguato quando le relazioni tra commissari e operatori economici sfumano nella figura del consulente “di fiducia”. La stessa Commissione milanese, due mesi prima dell’esplosione dell’inchiesta, aveva aggiornato il proprio regolamento introducendo maggior pubblicità delle sedute e rotazione degli incarichi, segno di una consapevolezza diffusa ma, purtroppo, tardiva.
Proprio per blindare l’indipendenza degli organi tecnici, si impone l’istituzione di un albo nazionale dei commissari urbanistici e paesaggistici, gestito dall’ANAC e alimentato esclusivamente attraverso un sorteggio pubblico telematico certificato.
Il legislatore statale, in virtù dell’art. 117, secondo comma, lett. l) Cost. (ordinamento civile) e dell’art. 117, terzo comma (professioni), potrebbe introdurre un sistema accentrato di accreditamento che, interoperando con la Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici, monitori in tempo reale i conflitti d’interesse, i precedenti disciplinari e gli incarichi pregressi dei candidati. L’estrazione casuale, garantirebbe rotazione, imparzialità e tracciabilità auditabile, mentre la previsione di finestre temporali per la restituzione alla professione eviterebbe l’effetto freezing delle carriere private. In tal modo, la governance delle trasformazioni urbane verrebbe sottratta alle logiche clientelari locali e riallineata alle best practice internazionali, come quelle richiamate dal parere 2024/6 della Commissione di Venezia sulla prevenzione della corruzione nei processi decisionali subnazionali.
Accanto a questo meccanismo nazionale, occorre estendere alle commissioni urbanistiche e paesaggistiche l’intero impianto dell’inconferibilità, introducendo un robusto cooling‑off territoriale: chi accetta di sedere in commissione dovrebbe impegnarsi a non esercitare attività professionale, né direttamente né per interposta persona, nella provincia o nella regione di competenza per almeno tre anni, tanto durante il mandato quanto nel triennio successivo. Una simile misura, lungi dall’essere un sacrificio sproporzionato, costituisce la trasposizione domestica dell’art. 24 della direttiva 2014/24/UE, che obbliga gli Stati membri a prevenire situazioni in cui interessi finanziari o personali possano compromettere l’imparzialità degli organismi decisori.
In parallelo, la nomina andrebbe vincolata a procedure comparative trasparenti, l’ordine del giorno delle sedute pubblicato in anticipo e i pareri resi pienamente accessibili in formato open data, superando la cultura dell’atto riservato che ha favorito opacità e interlocuzioni improprie fra politica e professioni.
Un tale disegno riformatore non rigenera soltanto la credibilità delle istituzioni locali, ma rafforza la certezza del diritto per gli operatori economici: l’attuale “decreto Salva‑Milano”, che tenta ex post di sbloccare cantieri paralizzati mediante un’interpretazione autentica dell’art. 41 della legge urbanistica, dimostra quanto sia oneroso un sistema decisionale che si inceppa quando affiorano sospetti di collusione.
Se si vuole evitare che l’intervento della magistratura congeli per mesi investimenti pubblici e privati, con ripercussioni dirette sui cittadini in attesa di edilizia residenziale, servizi e infrastrutture, occorre istituzionalizzare a monte regole di nomina capaci di garantire indipendenza, professionalità e assenza di incentivi privatistici. Solo così il parere delle commissioni potrà tornare a essere ciò che il legislatore aveva immaginato: uno strumento di tutela dell’interesse collettivo e non il crocevia in cui si negoziano equilibri fra potere politico e rendite immobiliari.

