Le parole che Alfano non dice sulla ‘ndrangheta
Il ministro dell’Interno Angelino Alfano, da buon siciliano, è certamente un esperto di Cosa nostra. Il suo libro La mafia uccide d’estate (da non confondere con il quasi omonimo e bellissimo film di Pif) ha peraltro riscosso un buon successo di pubblico e di critica, come si dice in certi casi.
Eguale dimestichezza, temo, Alfano non ha con le cose di ‘ndrangheta. A repubblica.it ha detto una frase che non sta in piedi («Abbiamo ottenuto grandi risultati», ma quali?), poi ha fatto appello alle donne «che hanno a che fare con uomini di ’ndrangheta» chiedendo loro di dissociarsi: «Se si dissociano le donne – aggiunge Alfano – e si rompe il nucleo che regge le ’ndrine partendo dalle donne avremo grandi risultati. Da lì può venire la ribellione vera: le mamme dicano ai figli questa non è la strada per te e io ti aiuterò a non fare la strada sbagliata».
Un appello che avrebbe un senso se Alfano avesse davvero a cuore le sorti della Calabria, ecco perché temo cadrà nel vuoto. La gestione del commissariamento di Reggio Calabria da parte del Viminale è stata discutibile – al limite del macchiettistico – il suo prolungamento un danno enorme per la città e un regalo alle cosche. In città i suoi ex sodali dicono che sia stato un regalo al Pd, e che anche lo strappo tra il segretario Ncd e Giuseppe Scopelliti (già dominus della deputazione reggina che si dimostrerà decisiva nello strappo con il Cavaliere) sia il prezzo da pagare all’alleato di governo, che in cambio ha acciuffato il potere in Regione e al Comune di Reggio.
Da Alfano avrei voluto anche sentire qualcosa sul vero strumento nella lotta alle cosche, che anche grazie a qualche cortocircuito istituzionale rischia di essere un’arma spuntata: la tutela dei pentiti, scaricati come fazzoletti usa e getta. Come il testimone di giustizia Pietro Di Costa, che ha rifiutato di farsi accompagnare al tribunale di Vibo Valentia dai carabinieri e che si è presentato al palazzo di giustizia armato di pistola perché teme per la propria incolumità personale durante lo spostamento da solo in auto. L’ex titolare di un istituto di vigilanza a Tropea non è uno ‘ndranghetista, è un uomo coraggioso che ha deciso di collaborare con lo Stato. E lo Stato che fa? Non lo tutela, come va dicendo da molti mesi attraverso clamorose proteste dinanzi alla Prefettura di Vibo e allo stesso Viminale. Ma Alfano su di lui non dice una parola.
Così come non dice una parola su Luigi Bonaventura, l’ex reggente della cosca Vrenna del Crotonese che con le sue testimonianze ha quasi fatto decimare il suo ex clan. Ma nel suo programma di protezione molte cose, stando alla sua testimonianza ripresa anche dalle Iene, non avrebbero funzionato a dovere («Mi hanno messo in una località protetta con altri ‘ndranghetisti…», ha scritto sui social). Ha detto altre verità scomode ai media e adesso gliela stanno facendo pagare, visto che oggi Bonaventura è fuori dal programma di protezione e teme per la sua vita. Sul suo profilo Facebook ha lanciato un appello, vorrebbe trasferire la sua famiglia all’estero e ha bisogno di soldi: «Vi ringrazio di cuore – scrive e mi vergogno ad accattonare la salvezza della mia famiglia,ma dopo 8 anni di alta collaborazione con mezze procure antimafia d’Italia, facendo arrestare o condannare oltre 150 ‘ndranghetisti, facendo debellare tra le più agguerrite cosche di ndrangheta e senza mai commettere un minimo di reato e restando ancora allo stato attuale un collaboratore operativo e altamente attendibile, questo Stato ingrato e senza buon senso li ha lasciati completamenti a macello in mezzo ad una strada, 2 bambini una moglie e altri miei 4 famigliari ,senza nemmeno un centesimo per poter vivere».
Caro Alfano, se vuole parlare a una donna, provi a farlo con Paola Emmolo, la moglie di Bonaventura. Provi a spiegare a lei perché ha fatto bene a fidarsi dello Stato. Se ci riesce…