La ‘ndrangheta banchetta, lo Stato balbetta
La ‘ndrangheta è il primo gruppo industriale del Paese. L’inquietante conferma arriva dalle due inchieste della Guardia di finanza e della Dia: le indagini delle Fiamme gialle in Calabria hanno portato all’arresto di undici esponenti del clan Piromalli, una delle famiglie storiche della ’ndrangheta di Gioia Tauro, al sequestro del più grande centro commerciale calabrese e di altri beni per un valore di 210 milioni di euro. Le indagini della Dia a Roma hanno consentito di scoprire l’ennesima intestazione fittizia di beni. A finire agli arresti domiciliari è Salvatore Lania, un imprenditore calabrese già finito in alcune inchieste, tra cui quella che qualche anno fa portò al sequestro dello storico locale della Capitale, il Cafè de Paris in via Veneto, finito in mano alla cosca Alvaro di Sinopoli. I ristoranti nel cuore di Roma La Rotonda e Er Faciolaro, vicini al Pantheon, erano intestate a suoi parenti o a suoi dipendenti mentre Lania, a fronte di una vita da nababbo, dichiarava redditi al fisco vicini alla soglia di povertà. «Appare evidente la sproporzionalità tra redditi e acquisti – scrive il gip di Roma, Gaspare Sturzo – circostanza che fa emergere «chiari dubbi sulla legittima provenienza della liquidità utilizzata
A unire le due operazioni è la famiglia Piromalli, uscita vincitrice dalla faida di Gioia Tauro che l’ha vista contrapposta alla cosca dei Molè. È come ai tempi delle guerre di mafia: gli storici alleati improvvisamente diventano acerrimi nemici, e la parola torna al piombo. Anche l’imprenditore campano di origine, Alfonso Annunziata, che aveva realizzato l’omonimo centro commerciale era un “nemico” dei Piromalli. E sono una stretta di mano con il capo cosca gli ha consentito di tornare in Calabria e di fare affari con i soldi delle ndrine, agendo – come spesso capita da quelle parti – come assoluto e insuperabile monopolista. Insomma, il suo iniziale ruolo di vittima delle estorsioni si è poi trasformato nel tempo in un «chiaro rapporto simbiotico» con indiscutibili vantaggi, come scrivono gli inquirenti.
Intercettato mentre raccontava ai suoi congiunti ed al suo commercialista vari episodi del passato, è stato lo stesso Annunziata a rivelare che i suoi primi rapporti con l’allora capocosca latitante Giuseppe Piromalli, 94 anni, iniziarono a metà degli anni ’80, quando da ex ambulante di abbigliamento nei mercati rionali si trasforma in negoziante nel cuore di Gioia Tauro. I primi attentati lo fanno allontanare, solo il consenso del vecchio patriarca dà il via libera al suo ritorno e alla scalata, con la nascita del centro commerciale. Il rapporto è simbiotico perché, secondo le indagini, a fronte del pressing delle cosche sulla pubblica amministrazione che avvantaggiava Annunziata, i clan avevano in mano una holding da oltre 200 milioni di euro, con buona pace della normativa antimafia, allegramente aggirata. Chi voleva entrare nel centro commerciale doveva parlare con lui: non per discutere di contratti o di accordi commerciali, ma per avere garanzie sul fatto che le mafie fossero della partita. Ed è qui che si configura «il suo fattivo contributo quale referente della ’ndrangheta locale». Annunziata, secondo le indagini, non poteva decidere alcunché, neppure la ditta cui affidare i lavori «in quanto tale decisione era appannaggio esclusivo della locale malavita, non per mera e semplice imposizione mafiosa, ma nella piena compartecipazione alle scelte strategiche della cosca Piromalli, attesa la consapevolezza che il progetto imprenditoriale fosse una loro creatura», scrivono gli inquirenti. Una circostanza che sarebbe dimostrata dalla disponibilità di numerosi appezzamenti di terreno nella zona circostante il centro commerciale adiacente allo svincolo autostradale di Gioia Tauro.
Un affare sporco di sangue se è vero, come ritengono gli investigatori, che proprio gli affari del centro avrebbero scatenato la faida Piromalli-Molè, culminata con l’omicidio di Rocco Molè nel 2008. Ma C’è anche un altro omicidio, un vero e proprio cold case, che ha risvegliato l’interesse della Procura. Si tratta della morte del barone Livio Musco, ritrovato ucciso con un colpo di pistola calibro 6,35 alla testa nella sua abitazione di Gioia Tauro nel marzo 2013. La sua famiglia era proprietaria dei terreni dove è stato costruito il centro. Musco era il figlio del generale del Sifar, Ettore Musco, a sua volta erede di una famiglia di feudatari di stirpe borbonica giunta in Calabria per avere ricevuto dal re di Napoli, in compenso delle loro prestazioni militari, centinaia di ettari di fondi agricoli. Forse Musco si è opposto agli affari dei Piromalli? «Posso solo dire che l’indagine è in corso», ha risposto laconicamente il procuratore capo della Procura di Reggio Federico Cafiero de Raho.
Alla ‘ndrangheta, lo abbiamo già scritto in mille salse, bar, ristoranti e la grande distribuzione in generale fanno gola perché circola molto contante ed è facile fare autoriciclaggio. Secondo Coldiretti sarebbero almeno 5milai locali della ristorazione nelle mani della mafia. «Ci sono attività “pulite” che si affiancano a quelle “sporche” – dice Coldiretti – che consentono alle prime di sopravvivere» grazie agli introiti in nero. Chi vive grazie agli incassi del sommerso da riciclare, aggiungo io, fa dumping, cioè concorrenza sleale, ammazzando il mercato e mortificando i competitor. Alle cosche fanno gola aziende agricole, centri commerciali, supermercati, settore agroalimentare e ristorazione. Esercizi dove gira molto contante. E non è un caso se, soprattutto a Roma, la ‘ndrangheta spadroneggia, come dimostra l’inchiesta romana. Secondo il presidente della Fipe-Confcommercio Roma, Fabio Spada «c’è da restare sconcertati dalla facilità con cui la criminalità si inserisce all’interno del comparto della ristorazione romana. Ma non siamo tutti espressione di infiltrazioni criminali, al contrario, per questo siamo i primi a volere che si faccia luce su questi eventi che deprimono e sviliscono il commercio del nostro territorio». Insomma, è la conferma che la ristorazione, come scrive Libera, si conferma la grande «lavanderia Italia» dove riciclare e ripulire i soldi sporchi.
Ovviamente i paladini della sedicente antimafia sono scattati all’unisono, pronti a spellarsi le mani davanti alle due operazioni. Su tutti si segnala, come spesso succede, il presidente della commissione Antimafia, Rosy Bindi: «l’impegno dello Stato deve puntare a gestire bene le imprese sequestrate, per rimettere sul mercato libere da ogni condizionamento e in grado di diventare un volano di ricchezza pulita per tutta la comunità». Una corbelleria, per usare un termine nobile. Ma la Bindi non ci sente, e nemmeno la Cgil: «Rilanciamo la nostra proposta sull’Agenzia nazionale, sulle confische e sui sequestri per tutelare concretamente i lavoratori che, come nel caso delle aziende del parco commerciale, rischiano di perdere il posto di lavoro ed il salario». Queste attività prosperano perché fanno dumping. Se si allineassero al mercato fallirebbero. E lo Stato con loro.