Chi pensa che la Chiesa non stia combattendo la sua battaglia con la ‘ndrangheta è fuoristrada. Del resto Papa Bergoglio è stato chiaro: gli uomini di ‘ndrangheta sono «scomunicati», se vogliono convertirsi pubblicamente devono divorziare dall’esercizio del male. Un concetto ribadito dal presidente della Conferenza episcopale calabra Salvatore Nunnari, vescovo di Cosenza e reggino di nascita e per anni parroco in un quartiere ad altissima densità criminale: «Nella Chiesa non c’è cittadinanza per i mafiosi se non dopo la loro conversione e dopo aver dimostrato con atti concreti, visibili e pubblici il loro pentimento».

La Chiesa – dicono i vescovi calabresi – non è contro nessuno, ma «testimonia la verità del Vangelo che non contrappone misericordia e giustizia: sono i mafiosi che, con i loro comportamenti, si autoescludono dalla comunità ecclesiastica e possono rientrarvi solo se dimostrano con i fatti il loro percorso di cambiamento».

Sono parole forti, nette. Direi quasi inedite. Per troppo tempo persino larga parte della società civile ha preferito restare pubblicamente in silenzio contro l’avanzata delle cosche, salvo qualche rara eccezione. E quando qualche uomo di Chiesa è finito nel tritacarne mediatico-giudiziario (salvo in qualche caso uscirne pressocché indenne) legittimamente si è schierata con lui, contro certe insinuazioni fastidiose della Procura e un’aura di sospetto che quel silenzio contribuiva ad alimentare. Penso, per esempio, al sacerdote Salvatore Santaguida, ex parroco di Stefanaconi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e prossimo al processo assieme ad altre 14 persone tra cui e l’ex maresciallo dei carabinieri Sebastiano Cannizzaro. O all’ex cerimoniere del vescovo, don Nuccio Cannizzaro, processato (e assolto) con l’accusa di aver avvantaggiato il boss del suo quartiere.

Perché è il silenzio l’arma vincente della ‘ndrangheta, come ha ribadito il procuratore capo di Reggio Federico Cafiero de Raho: «Il silenzio le consente di portare avanti i propri affari e le consente di continuare a muoversi. Qualunque fatto violento significa far sì che si accendano ancor più i riflettori dello Stato, e questo la ’ndrangheta non lo vuole perchè significa maggiori rischi di essere individuati».

Ora che nel silenzio il «grido di un territorio ferito, dove la piaga della mancanza di lavoro si salda con quella del lavoro nero, della manovalanza mafiosa, dell’usura e delle promesse di guadagni facili» (Nunnari dixit)  si è fatto assordante, la Chiesa ha parlato: «La ’ndrangheta non ha nulla di cristiano ma scimmiotta la fede e il Vangelo. La ’ndrangheta è il nemico più minaccioso per il presente e il futuro della nostra terra di Calabria – ha detto Nunnari – e noi dobbiamo metterci in gioco in prima persona per colmare i vuoti della società calabrese diventando, ognuno nel proprio ambito e nel proprio ambiente, costruttori di speranza».

Basterà? No. Anche perché uguale severità la magistratura dovrebbe richiederla prima ancora a se stessa. Penso per esempio alla sanzione inflitta dalla Sezione disciplinare del Csm (solo per una questione organizzativa della Procura, tengono a precisare gli interessati) al magistrato Alberto Cisterna, ex «vice» di Pietro Grasso alla Direzione nazionale antimafia.

Che cosa avrebbe combinato Cisterna, trasferito (e confermato) a Tivoli? Non avrebbe «tempestivamente» informato il suo diretto superiore dei contatti avuti per diversi anni con Luciano Lo Giudice, figlio di Giuseppe, capo di una cosca della ’ndrangheta. E soprattutto fratello di Antonino, il boss che che si è autoaccusato degli attentati del 2010 contro la sede della Procura generale di Reggio Calabria e l’abitazione del Pg Salvatore Di Landro. Ne ho parlato qui, qui e qui.

Quindi? Se un prete flirta con un boss va processato, se lo fa un magistrato antimafia che si dimentica di dirlo al suo capo si prende un buffetto e viene trasferito. E la ‘ndrangheta se la ride…

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