Omicidi di ‘ndrangheta, falsi mandanti e pallottole di carta
Chi ha ucciso Carmine Novella? C’è un nuovo retroscena che riapre il capitolo chiave dell’inchiesta Infinito. Lo avevo già scritto lo scorso 12 gennaio qui, quando è spuntato l’ennesimo mandante dell’omicidio del boss scissionista che secondo i pm di Milano sarebbe stato ucciso perché voleva separarsi dalla casa madre su ordine della cupola calabrese. Che in realtà non esiste, almeno non nelle dinamiche ipotizzate dagli inquirenti e smentite persino da Nicola Gratteri, una su tutte l’idea di un unico capo come Domenico Oppedisano. Sarà. «Compare Nunzio è stato licenziato», dicevano intercettati due ‘ndranghetisti qualche giorno prima che lo ammazzassero. E che fosse un dead man walking lo si era capito dal mancato invito alle nozze della figlia di Rocco Aquino, boss di Marina di Gioiosa Jonica.
Per un movente più o meno verosimile, come nei gialli di Agatha Christie c’erano diversi mandanti, l’ultimo dei quali sarebbe Cosimo Giuseppe Leuzzi, considerato il capo della cosca di Stignano (Reggio Calabria) alleata con le famiglie di Monasterace e Guardavalle e che sarebbero guidate rispettivamente da Andrea Ruga (morto più di quattro anni fa) e da Vincenzo Gallace. Ma nella sentenza della Corte d’Assise di Appello di Milano che ha confermato l’ergastolo per Gallace si legge che il movente «non è stato ancora individuato».
La colpa di Novella, secondo l’ipotesi che dovrebbe reggere fino alla Cassazione, era quella di coltivare il sogno della scissione dalla Calabria, che voleva sapere in anticipo (pensa tu…) a chi Novella avrebbe dispensato “doti” e gradi ai mafiosi e che avrebbe dovuto autorizzare preventivamente l’apertura di nuove “locali” di ‘ndrangheta. Insomma, Novella agiva come un negoziante in franchising che non rispettava le consegne della casa madre. «Sono Nunzio Novella, non ho bisogno di chiedere il parere a nessuno, non ho bisogno neanche di mandare l’imbasciata», si vantava spesso. E quindi, come dirà nelle intercettazioni ambientali il boss chiacchierone di Bollate Vincenzo Mandalari «solo i massimi esponenti della ‘ndrangheta calabrese (…) avrebbero potuto intervenire per fermare o correggere» il suo operato, come scrivono i magistrati.
L’unica certezza sembra essere il killer, al secolo il pentito Antonino Belnome, che però ha sempre sostenuto che fossero altri i motivi che hanno portato al suo omicidio, uno su tutti le frasi irriguardose captate dagli inquirenti nell”inchiesta Appia Mythos (per la quale Novella fu arrestato e poi scarcerato) che il boss scissionista avrebbe pronunciato contro la mamma di uno dei suoi storici rivali della cosca Gallace, Vincenzo appunto: «Leuzzi, Ruga e Gallace… sono oggi i numeri uno e sono tutti e tre insieme», è l’epitaffio di Belnome. A guidare la moto con cui il killer sarebbe fuggito dal bar «Reduci e combattenti» di San Vittore Olona nel luglio del 2008 è stato l’altro killer pentito, Michael Panajia, che dice di aver ricevuto da Leuzzi, una volta in Calabria dopo l’omicidio, una mazzetta da tremila euro: «Un presente, un pensiero di noi per te», mentre per Belnome in regalo ci sarebbe stata «una tavola, nella sua taverna, piena di pasticcini e bottiglie di champagne».
Così avevo scritto un paio di mesi fa: «Possibile che Leuzzi, Ruga e Gallace possano aver deciso l’omicidio di Novella senza chiedere il permesso a Oppedisano, o alle famiglie di ‘ndrangheta o a chi per loro? È possibile che l’esistenza di uno scazzo tra i Gallace e Novella possa essere stato “sfruttato” dai capi clan per liberarsi di un boss scomodo?» con la scusa di una «trascuranza grave» come l’aver insultato la mamma del rivale? Forse sì. O forse no, stando alle ultime rivelazioni pubblicate sul Fatto quotidiano. Già, perché il figlio del boss scissionista Alessio Novella avrebbe scritto al suo avvocato di non avere dubbi: «Al 100 % sono certo che Gallace Vincenzo non ha ordinato l’omicidio, la verità come la conosco io, non la conosce nessuno».
Il figlio del boss scissionista scrive: «So bene che Milano non cerca la verità ma ha costruito due mostri (la famiglia Novella e quella Gallace) a cui addossare tutto il male del mondo. Se non fanno queste cose – riporta il Fatto – come giustificano l’Antimafia, la Dia, l’emergenza e tutto il resto?». E ancora: «Gli esecutori non fanno un giorno di galera, e voi (Gallace, ndr) siete imputato come mandante, dopo una vita di legame e affetto con la mia famiglia. Purtroppo è così e dobbiamo lottare. Non dubitate mai che io sono sicuro che mai potevate volere male a me o a mio padre». Un messaggio in codice? Un segnale di pace per non inasprire la faida. Probabile, ma bisognerebbe indagare.
Secondo il quotidiano, i legali del boss Gallace avrebbero chiesto di acquisire il carteggio ma la Corte lo avrebbe escluso. D’altronde, fare luce sulle vere cause della morte di Novella potrebbe far riscrivere la storia della ‘ndrangheta milanese e demolire l’impianto della procura antimafia guidata da Ilda Boccassini. Ma a questo potrebbe pensarci la Cassazione.
Ps Dalla Calabria arriva un’altra storiaccia che riguarda un giornalista. Dopo il caso Cordova c’è un altro coraggioso collega antimafia finito nel tritacarne per aver fatto il suo dovere. Si chiama Agostino Pantano e secondo i suoi detrattori sarebbe un «killer su commissione» che avrebbe scritto sei articoli su una storiaccia avvenuta a Rosarno costruendo «una palese, evidente, intollerabile ed ingiustificabile campagna denigratoria dalla assoluta mancanza di verità, interesse pubblico, continenza e razionalità giornalistica, un killeraggio calunnioso, una meschineria, un tentativo fraudolento di informare in modo parziale e non veritiero».
Ma anziché chiedere una rettifica questi galantuomini (se volete sapere chi sono basta leggere qui) chiedono un risarcimento danni di 500mila euro o sarà querela. Secondo il segretario del sindacato calabrese Carlo Parisi, lo strumento della minaccia di querela «è una intimidazione e di censura della libertà di stampa. E così chi non ha editori importanti e disposti a sostenerne le spese di giudizio i giornalisti rischia l’autobavaglio preventivo, che rappresenta la tomba della libertà di stampa». E la ‘ndrangheta se la ride…