Da Scopelliti a Messina Denaro Quell’asse mafia-ndrangheta
Ci sono omicidi che cambiano la storia. Come quello del giudice Antonino Scopelliti. Quando la ‘ndrangheta lo uccide il 9 agosto 1991, alla vigilia dell’ultimo grado di giudizio del maxiprocesso a Cosa Nostra ero a Londra. Nell’anno della maturità tutto ti sembra possibile, anche che un giorno la violenza possa finire, che il posto dove sei nato e dove pensi di avere il diritto di vivere torni a essere una città «normale».
Scopelliti, sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione, viaggia sulla sua auto a Campo Calabro. Gli sparano con un fucile a pallettoni. Due colpi lo prendono in testa. La macchina finisce fuori strada. Stava tornando a casa, senza scorta, da una mattinata passata al mare nelle zona in cui risiedeva, appena fuori Villa San Giovanni. «Mio padre non era un eroe», dice Rosanna Scopelliti, parlamentare Ncd, e infatti la magistratura non è mai riuscita a inchiodare definitivamente i mandanti, almeno per via giudiziaria.
Per la vulgata Scopelliti è stato ucciso dalla ‘ndrangheta su richiesta di Cosa Nostra perché avrebbe dovuto sostenere la pubblica accusa contro i mafiosi. La sua morte non fermerà la sentenza di condanna che la mafia aveva cercato in tutti i modi di far saltare. «Gli furono anche offerti 5 miliardi delle vecchie lire per corromperlo – ripete sempre l’esponente Ncd – Vent’anni e passa dopo mi ostino a dire che la sua scelta di rifiutarli non fu eroica ma normale, perché non si delega agli altri quello che tutti noi potremmo fare. È questo il motivo per cui detesto la parola “eroe”. Ho vissuto sulla mia pelle l’indifferenza della Calabria che dopo il suo omicidio è rimasta in silenzio».
Il tardivo processo sulla morte del giudice si è concluso con un nulla di fatto: dopo una lunga serie di sentenze, con condanne e assoluzioni, la Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria ha infatti assolto Bernardo Provenzano, Giuseppe e Filippo Graviano, Raffaele Ganci, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè e Benenetto Santapaola dall’accusa di essere stati i mandanti del delitto.
La Scopelliti ha il dente avvelenato soprattutto con una parte della magistratura. Sono anni che la figlia del giudice ripete: «Da Ferragosto del 1991 in poi il delitto Scopelliti è stato completamente dimenticato. Io e mia madre siamo rimaste nella solitudine. E la stessa solitudine c’è stata anche dopo, con il passare degli anni. Anche quando sono arrivate le sentenze, soprattutto quelle vergognose con le assoluzioni dei mandanti e degli esecutori. A me e a mia madre quel silenzio ha fatto male. Non è pensabile che familiari di vittime di mafia, familiari di servitori dello Stato, vengano lasciati completamente soli, senza verità e senza giustizia».
A sparare, lo sappiamo solo oggi con certezza, sono stati tre killer reggini, come ha detto durante il processo Meta (pietra miliare nella ricostruzione della storia della ‘ndrangheta e cristallizza la pax mafiosa dopo la guerra e la tripartizione della Calabria in tre mandamenti: Reggio, Jonica e Tirrenica) il collaboratore di giustizia Antonino Fiume, legato a Giuseppe e Carmine De Stefano, i figli del super boss vittima illustre della seconda guerra di ‘ndrangheta Paolo De Stefano. È Fiume a confermare che l’omicidio venne commesso per fare un favore alla mafia. I nomi Fiume li sa e li ha detti ai pm reggini: «Ci sono situazioni che, se non stiamo attenti, si corre il rischio che ci ammazzano», ha avvertito.
A distanza di 24 anni le indagini sono riaperte, anche perché Fiume sa un sacco di cose e ai boss alla sbarra dà molto fastidio. Per Giuseppe De Stefano, considerato l’erede della storica famiglia di ‘ndrangheta, Fiume è soltanto «un pupo ammaestrato». E aggiungendo: «E so anche da chi. È un buffone e falso. Quando lo sento parlare di di massoneria e di rapporti con la politica, io lo invito a fare i nomi e i cognomi. Voglio aggiungere che i nomi degli assassini del giudice Antonino Scopelliti, che lui dice di sapere, glieli avrà detti, quasi sicuramente, il pentito Giacomo Lauro. E sono quelli che già si sapevano negli anni Novanta, come Luigi Molinetti».
Fiume ha ricostruito buona parte delle dinamiche della guerra di mafia iniziata nel 1985 con la morte di Paolo De Stefano e finita nel 1991 con l’uccisione di Scopelliti. Il processo Meta ha ricostruito chi comanda in città dopo la pax mafiosa voluta – pare – dalle famiglie che si erano fatte la guerra, con la supervisione del già latitante Totò Riina, sbarcato a Villa San Giovanni vestito da frate. Che come compenso per il lavoro di mediazione chiese – e ottenne – il sangue di Scopelliti.
Il conteggio dei morti nella sola città di Reggio parla di 600 vittime, morto più morto meno. Cento l’anno. Fiume faceva parte di una élite di killer specializzati, definiti la «guardia regia» dei boss. Ci sono quelli capaci di sparare a distanza con i fucili di precisione e gli assassini one shot, un colpo e via.
Dalle sentenze sappiamo che alla fine della guerra Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello detto il Supremo, il cugino Domenico, Antonino Imerti, Giovanni Tegano e Pasquale Libri si stringono le mani sporche del sangue altrui e – in lacrime – fanno la pace in nome degli affari attraverso una sorta di direttorio che ha in mano gli equilibri criminali a Reggio. Sotto Giuseppe De Stefano c’è una sorta di «struttura piramidale visibile» dietro cui però – si legge nell’inchiesta Meta – si muoverebbero gli «invisibili», ossia i professionisti che ci mettono la faccia e che gestiscono «direttamente o per interposta persona la gestione o comunque il controllo di attività economiche avviate con il provento di delitti, attraverso concessioni o autorizzazioni, appalti e servizi pubblici».
Insomma, a comandare davvero potrebbero essere questi «invisibili», che possono anche tramare contro la stessa ‘ndrangheta? Chi c’è in quella zona grigia di cui parlano i pentiti (tutti attendibili? Mah!) che gestiscono affari, appalti e concessioni in nome e per conto dei boss?
E l’alleanza mafia-ndrangheta? Resiste ancora, anche secondo il vicepresidente della Commissione parlamentare antimafiaClaudio Fava: «Non escludo che la ’ndrangheta possa dare una mano alla latitanza del boss Matteo Messina Denaro – ha detto il deputato del
Gruppo Misto a KlausCondicio – è più grossa multinazionale sulla Terra e ha un’organizzazione capillare su tutti e 5 i continenti». C’entra qualcosa la presunta Spectre affaristico mafiosa che avrebbe aiutato la latitanza di Marcello Dell’Utri e Amedeo Matacena? In fondo un favore ai soci in affari non si nega mai…