Niente succede per caso, in Calabria. Nel giorno della festa della Madonna di Polsi, il luogo simbolo dei summit di ‘ndrangheta nel cuore dell’Aspromonte, viene a mancare uno dei boss storici della mafia calabrese. Antonio Nirta è stato sepolto alle sei di mattina, in un funerale privato, per ordine della Questura, come era già accaduto a giugno dopo la morte a Santo Stefano in Aspromonte del “re della montagna” Rocco Musolino. A 96 anni «due nasi» non avrebbe voluto le luci della ribalta, lui che l’aveva sempre fatta franca in tribunale.

Con i fratelli Giuseppe (ucciso il primo marzo del 1995 a Bianco) Francesco, Sebastiano e Domenico assieme a Francesco Codispoti (suo cognato), Nirta detto «il diplomatico» per aver contribuito a fare da paciere nella guerra di mafia di Reggio Calabria (assieme a Giuseppe Pelle detto «Gambazza») così come in altre faide come quella di San Luca, faceva parte della potentissima «Maggiore», forse la cosca più potente nella storia della ’ndrangheta. Antonio Nirta è morto nella sua casa di contrada Ricciolio Di Benestare a 96 anni. Ufficialmente era un caposquadra della forestale in pensione, sebbene qualche tempo grazie a un sequestro preventivo disposto dal Tribunale di Reggio Calabria si scoprì che aveva beni e terreni per oltre sei milioni di euro.

C’era anche lui nel 1969 al famigerato summit che il 29 ottobre del 1969 si tenne a Moltalto, anziché a Polsi quando le forze dell’ordine sorpresero assieme lui e altri boss del suo calibro. C’era lui a sovraintendere alla stagione dei sequestri di persona negli anni Settanta e Ottanta ed era tra i principali imputati nel processo per il sequestro di Paul Getty junior, il nipote del magnate inglese Paul rapito a Roma nel 1973 e liberato dopo 158 giorni grazie a un riscatto da 1,7 miliardi di lire. Ma non è mai stato condannato in via definitiva

Eppure la prima imputazione Nirta se l’era beccata nel 1935: detenzione di armi. La più pesante, associazione a delinquere, nel 1970: due anni e sette mesi. Poi una raffica di assoluzioni nonostante le dichiarazioni dei pentiti storici Filippo Barreca, Giacomo Lauro e Saverio Morabito (di cui abbiamo già parlato in questo blog). L’accusa più pesante era quella di aver partecipato al blitz di via Fani che portò al sequestrò dello statista Dc Aldo Moro e all’uccisione degli uomini della sua scorta.

Morabito puntò il dito contro l’ex generale dei carabinieri Francesco Delfino, nato a Platì e figlio del maresciallo Massaru Peppe (la cui bravura da investigatore gli varrà l’immortalità in un libro di Corrado Alvaro). Delfino è protagonista di buona parte dei segreti italiani, dalla strage di Piazza Loggia al crac del Banco Ambrosiano, dal caso Moro appunto all’inchiesta su Lotta Continua e il commissario Calabresi. È capocentro dei servizi a Londra quando viene trovato il cadavere di Roberto Calvi, è lui ad arrestare Flavio Carboni e a rintracciare l’ex 007 Francesco Pazienza.

Morabito sostiene che Delfino sia molto amico di Antonio Nirta e che lo avrebbe aiutato a infiltrarsi nelle Brigate Rosse, dice che Nirta avrebbe fatto parte del commando che avrebbe protetto il rapimento di Aldo Moro. Una tesi che Delfino – morto qualche mese fa ai domiciliari con un’accusa di truffa a 77 anni per aver intascato una parte del riscatto dell’amico Giuseppe Soffiantini, rapito dall’anonima sarda nel 1997 –  ha sempre smentito: «Non l’ho mai incontrato, ho detto mai». A sostenere la tesi di Nirta brigatista è anche il deputato Dc Benito Cazora, che al giudice Luigi De Ficchy racconta di aver saputo da un uomo della ‘ndrangheta, Rocco Varone, che Moro era stato tenuto prigioniero a Vescovio e che sarebbe stato spostato a Roma, nella zona della Magliana, proprio in occasione del depistaggio del falso comunicato del lago della Duchessa. Morabito non avrebbe avuto alcun vantaggio nel mentire, è considerato uno dei pentiti chiave nella lotta alla ‘ndrangheta e ancora oggi vive in una località segreta per sfuggire alla vendetta dei boss. E così Nirta si porta nella tomba anche un pezzo di verità sul caso Moro.

Certo, Delfino e Nirta erano di casa nella Locride, soprattutto a Polsi. Sotto l’effige della Madonna si sono chiusi accordi e strette alleanze, una volta pure Cosa Nostra avrebbe tenuto una riunione tra capimandamento per esaminare un progetto eversivo. Ed è per questo che il vescovo di Locri Francesco Oliva ha voluto ricordare che adesso le cose a Polsi sono cambiate, che «questo santuario sarà oasi di misericordia, con Maria pronta a sanare le ferite di questa terra, intrisa del sangue, versato dall’odio e dalla violenza di uomini senza cuore e scrupoli».

Il messaggio agli ’ndranghetisti è netto, come non mai: «Agli uomini e alle donne che appartengono a qualunque gruppo criminale o che sono finiti in attività criminali, la Vergine di Polsi fa sentire la voce accorata della mamma: Per il vostro bene, vi chiedo di cambiare vita». Come papa Francesco insegna, c’è sempre posto per il perdono: «Maria susciti in quanti sono stati offesi l’umiltà e la prontezza nel perdonare. Da lei invoco per tutti la pace del cuore, la gioia di un sincero pentimento e la disponibilità a riparare il male commesso. Ci venga propizio l’anno giubilare: si aprano le porte del santuario di Polsi a tanti pellegrini, perché possano incontrare la divina Misericordia».

Chissà che la morte di Nirta e il cambio di rotta della chiesa reggina possano davvero cambiare le cose. La Calabria onesta aspetta e prega.

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