Delle stragi di via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino non sappiamo quasi niente, scrive Edoardo Montolli su Crimen in un articolo ripreso dal Fatto quotidiano. Il dubbio a cui nessuna inchiesta ha dato una risposta è: come fece Cosa Nostra a sapere dell’arrivo del magistrato a casa della sorella in Via D’Amelio? Già, perché non tutti sanno che «il pomeriggio del 19 luglio 1992 Paolo Borsellino si recò a casa della sorella magistrato solo per un mero imprevisto – scrive ancora Montolli – solo i familiari ne erano a conoscenza, avendolo appreso al telefono». Dopo la strage di Capaci, ricorda l’articolo ripreso dal Fatto quotidiano – del 23 maggio, i divieti di parcheggio anti-bomba «proliferavano e le zone venivano continuamente bonificate». In più «il magistrato era già stato lì sabato 18 luglio e nessuno poteva aspettarsi un suo ritorno, visto che andava a trovare la madre la domenica mattina, e nemmeno sempre». Eppure la126 imbottita di Semtex, un esplosivo militare usato anche nelle cave nei Paesi dell’Est, che deflagrò dilaniando lui e la sua scorta era stata portata lì e fatta esplodere con un telecomando solo poco prima dell’arrivo di Borsellino.  Forse la sorella del giudice Rita Borsellino era intercettata? La Procura di Caltanissetta aveva incaricato il commissario Gioacchino Genchi di svolgere una perizia sul telefono di casa della donna: «Dalle testimonianze – scrive Montolli – emerse che, in effetti, c’erano stati precedentemente dei rumori di fondo nelle telefonate. Tre o cinque giorni prima dell’attentato, la nipote di Borsellino vide un uomo in tuta blu lavorare all’interno delle cassette delle linee telefoniche. Secondo il portiere dello stabile si trattava di operai della Sielte intenti a fare lavori alla linea di un inquilino dell’ottavo piano, o meglio una ditta di costruzioni trasferitasi lì un mese prima. Vennero anche ritrovati residui di “filo di permutazione”, che si sarebbe potuto usare per realizzare un “circuito parallelo” della linea telefonica. Queste indagini – ricorda ancora Montolli – portarono a un operaio della Sielte, Pietro Scotto, fratello del boss Gaetano Scotto. E fu allora che arrivò il falso pentito Vincenzo Scarantino, che campava vendendo sigarette di contrabbando. Neurolabile, riformato dal servizio di leva, membro di una confraternita religiosa, viene incastrato da due mezze tacche del crimine, che lo accusano di aver ordinato il furto della 126 esplosiva».

Invece secondo l’ultimo grande pentito Gaspare Spatuzza, killer dei Graviano, notizie sugli spostamenti del giudice arrivavano da Salvatore Vitale, conoscente fin dall’infanzia del boss Antonino Vernengo e proprietario del maneggio dove fu sequestrato il piccolo Giuseppe Di Matteo. Vitale, morto nel 2012, abitava al piano terra del civico 19 di via D’Amelio. Scrive Montolli: «Vitale era considerato un suo prestanome e finì nei guai per favoreggiamento e ricettazione: insospettabile imprenditore che, sottolineavano i giudici nel 1985, dichiarava la sua militanza comunista ed erogava pubblicamente contributi alla Festa dell’Unità; divenne amministratore dell’azienda vinicola Enologica Galeazzo, attraverso la quale, secondo i magistrati, Vernengo (proprietario di fatto)  riciclava denaro illecito proveniente in particolare dal traffico internazionale di stupefacenti.  Dall’ordinanza della sentenza del maxiprocesso è possibile vedere che nel 1986 Amato abitava proprio al civico 19 di via D’Amelio». Ma perché è così importante?

«Prima di diventare imprenditore Federico Amato era capomastro del cantiere del palazzo – ricorda Rita Borsellino su Crimen – quando andai a viverci, nel 1977, lui abitava già lì. Ed è morto lì, forse due anni fa. Ne parlai ovviamente agli inquirenti, che fecero uno screening di tutti i residenti del palazzo». E allora dov’è il giallo? Il nome di Amato non compare nella relazione Genchi, è un nome nuovo soprattutto al consulente. Che a Montolli conferma: «Che un imputato del maxiprocesso abitasse al civico 19 di via D’Amelio lo apprendo solo ora, dello screening dei residenti dello stabile se ne occupava il capo del gruppo d’indagine Falcone-Borsellino, Arnaldo La Barbera. Escludo che me ne abbia parlato, lui o qualcuno dei magistrati incaricati dell’indagine, altrimenti avrei ovviamente approfondito. Il nome di Federico Amato, fino a ora, non mi diceva nulla».