Tutti a indignarsi per una frase di Rosy Bindi («La camorra è un elemento costitutivo della società e della storia di Napoli»), tutti ad aggrapparsi alle virgole e nessuno che entri nel merito della vicenda. A me la Bindi sta antipatica, la sua Antimafia e il vizietto di dare patenti anche di più ma stavolta la parlamentare certo poco avvezza a parlare di mafie e dintorni non è andata lontano dalla verità. Ma nel dibattito su chi indica la Luna non voglio perdere tempo a parlare del dito, è meglio parlare della Luna.

La Luna, a casa mia, si chiama ‘ndrangheta. E la ‘ndrangheta è, come la camorra in Campania e la mafia in Sicilia, elemento costitutivo della Calabria. Anzi, peggio. Elemento fondante. Perché in Calabria non esiste la società civile.

Ci sono le associazioni di volontariato, quelle antimafia, la Chiesa, qualche insegnante illuminato, qualche sporadico sindacalista onesto. Ma c’è un pezzo di società, i commercianti, i professionisti, i gran commis di Stato – che con un pezzo di carta possono cambiare le cose – che invece lavorano “contro” la città e solo per il loro tornaconto personale. Qualcuno la chiama la borghesia mafiosa. Nell’indagine Meta c’è un commerciante che parla con il suo estorsore come in un film di De Crescenzo. Dice che è stanco di pagare e di regalare i vestiti ai figli dei boss. O l’una o l’altra.

Ci sono i capibastone che controllano i voti, indipendentemente dai partiti o dalle ideologie. Ci sono i portaborse dei politici, che trescano con i boss dei rioni. C’è un giornalismo cialtrone pensa ancora di farla franca propalando mezzi scoop che pm invidiosi o politici chiacchieroni piazzano in bella vista sulle loro scrivanie.

Poi c’è il ceto medio, i consumatori, che per la stragrande maggioranza viveva o vive di soldi pubblici: insegnanti, ferrovieri, pensionati, dirigenti pubblici. Gente che pensa a sopravvivere, che fa la voce grossa contro la mafia, ma poi dona il voto al migliore offerente. Succede quando il voto è tutto quello che hai, la tua unica merce di scambio. Ecco perché la mafia non ha più bisogno di farsi la guerra.

Il problema, che era del Sud ma adesso è diventato dell’Italia intera, sono i cosiddetti cacicchi che controllano i voti. A destra, dopo il lento disfacimento delle varie piccole e grandi leadership, come a sinistra.  Ce ne sono anche al Nord, come dice l’ex ministro Pd Francesco Barca a Linkiesta, uno che aveva il compito di resettare il partito democratico romano, che invece è ancora intatto: «Le classi dirigenti locali sono avverse al cambiamento perché va a intaccare le loro rendite di posizione. Preferiscono che la torta non si allarghi, pur di tenersi la loro, grande, fetta».

Sono i governatori regionali come Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, i Pittella in Basilicata o gli Oliverio in Calabria. E non è vero, come dice ancora Barca, che «nei territori del Sud ci sono filiere di pensiero e di azione che si auto-organizzano, senza bisogno di corpi intermedi, siano essi partiti politici o sindacati». Almeno non in Calabria. Sono probabilmente i cacicchi locali che con i loro magheggi hanno fatto vincere l’innocuo Ignazio Marino a Roma, come dimostrano gli affari del Comune con le coop rosse e l’alta percentuale di stranieri al soldo di Buzzi e co. alle primarie di Roma. Ed è per questo che il Comune di Roma andava sciolto, a maggior ragione dopo la denuncia dell’Anticorruzione sugli affari tra le coop di Mafia Capitale e il Campidoglio, ma il Pd si è opposto.

In Emilia Romagna l’operazione anti ‘ndrangheta AEmilia ha segnato la fine del modello «rosso» di governo che il Pd sognava di esportare a Palazzo Chigi.  Le indagini della Dda di Bologna sulla ‘ndrangheta emiliana hanno toccato storiche roccaforti democrat come la Reggio Emilia guidata fino a poco tempo da dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio, Parma, Piacenza e Modena, su fino a Verona, Mantova e Cremona.

In Calabria i cacicchi, anche se io preferisco chiamarli capibastone, spesso vanno a braccetto con la ‘ndrangheta. Spesso sono dietro qualche peones spacciato per novità politica. Anche l’ex assessore di Rifondazione Nino De Gaetano era stato sfiorato dal sospetto che i boss di Archi andassero a caccia di voti per lui, eletto a sorpresa in Consiglio regionale con una valanga di voti a scapito di qualche big rimasto a spasso e rimasto coinvolto nel pasticcio dei rimborsi elettorali che rischia di costare il carcere anche al senatore Ncd Giovanni Bilardi, eletto anche lui a sorpresa con i voti di Grande Sud in Calabria perché in Sicilia il seggio (destinato all’ex Forza Italia Gianfranco Micciche) non era scattato.

È su questo rapporto feudale che la politica dovrebbe avere, una volta per tutte, il coraggio di confrontarsi seriamente. È all’interno del Pd che serve un serio esame di coscienza. Dovrebbe saperlo bene anche Rosy Bindi, che i voti alle primarie nella Calabria blindata dai bersaniana li ha presi. E tanti.

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