Dovevo aspettarmelo, che prima o poi sarebbe successo. Nella retata che a Melito Porto Salvo ha portato a 10 arresti di presunti affiliati alla cosca Iamonte c’è anche Natale Iamonte, giovane rampollo della famiglia che io – adesso posso rivelarlo – intervistai ormai sette anni fa di questi tempi (era esattamentel’11 ottobre 2008) senza rivelarne il nome per il libro O mia bella Madu’drina edito da Aliberti e scritto con il bravissimo collega calabrese Antonino Monteleone inviato di La7, che la ‘ndrangheta la conosce meglio di me per averla combattuta di persona.

Le indagini per arrestare il giovane Natale Iamonte, omonimo del boss classe 1927, sono partite da un pentito, che dopo essere stato arrestato ha rivelato le trame della potentissima cosca e i suoi rapporti con gli imprenditori e i politici. Che Natale Iamonte sia un mammasantissima è acclarato. Faceva parte della Santa, la supercupola che per anni ha fatto il bello e il cattivo tempo in Calabria. Per la cronaca è stato arrestato a Milano il 22 novembre del 1993 in un appartamento di via Ruccellai al confine tra il capoluogo lombardo e Sesto San Giovanni e sottoposto al carcere duro dopo essere stato mandato al confino a Desio, dove la sua cosca si è poi ramificata. Ma è uscito dal carcere più o meno un anno fa per motivi di salute, una sorte che a boss come Bernardo Provenzano o Pantaleone Mancuso detto vetrinetta non è stato concesso. Ed è morto nel suo letto il 2 febbraio di quest’anno. Cinque dei suoi figli (Antonino, Carmelo, Remingo, Vincenzo e Giuseppe) sono ancora in galera.

Secondo la letteratura giudiziaria l’ex macellaio Iamonte avrebbe ucciso con le sue mani il rivale Giuseppe Trimarchi e avrebbe così conquistato la poltrona di boss del paese jonico. L’inizio di una faida con oltre trenta tra omicidi e tentati omicidi imputati alla sua cosca. In una zona diventata improvvisamente ricca grazie alla Liquilchimica, un progetto da 300 miliardi di lire. Ma la struttura non divenne mai operativa perché fu costruito su un terreno non idoneo, soggetto a smottamenti, malgrado le attenzioni dell’ingegnere civile locale che morì in un incidente d’auto, come ho già scritto qui, le cui trame si intrecciano con i moti di Reggio Calabria, quando la città – aizzata anche da qualche boss della ‘ndrangheta in erba armato fino ai denti pronto a fare la guerra allo Stato – insorse contro l’attribuzione del capoluogo di provincia a Catanzaro. È vicino alla Liquilchimica infatti che è sepolta la nave Laura Couselich o Laura C carica di rifornimenti salpata dal porto di Venezia nel 1941 e affondata da un sommergibile inglese sul fondo sabbioso di Saline Joniche con almeno 1.500 tonnellate di tritolo. Un supermercato per mafia, camorra e Sacra Corona Unita, tanto che qualcuno sostiene che l’esplosivo usato per via d’Amelio e addirittura per la strage di Capaci arrivi da qui. Solo nel 2003 (otto anni dopo) il genio militare per la Marina cementifica le stive. Però nel 2004 spuntano tre panetti di tritolo nascosti in un bagno di Palazzo San Giorgio a Reggio Calabria, per gli inquirenti è un attentato intimidatorio contro Giuseppe Scopelliti, allora ancora sindaco di Reggio. E ancora qualche tempo fa una parte di quell’esplosivo è tornata ad accendere la lunga notte della città.

E non è un caso che Iamonte sia anche il boss che avrebbe fatto campagna elettorale (anche se non fu mai dimostrato) per l’ex leader socialista Giacomo Mancini, come dissero cinque pentiti tra cui due gole profonde storiche: Giacomo Lauro e Filippo Barreca, che ai pm dirà: «L’onorevole Mancini, nell’anno 1980 o 1981, si incontrò a Caracciolina (una frazione di Montebello Jonico) con Natale Iamonte». In cambio Mancini sarebbe intervenuto presso la Corte d’Appello di Bari per mediare la posizione processuale d uno dei figli di don Natale, Giuseppe Iamonte, in carcere perché accusato dell’assassinio di Domenico Artuso. L’altro pentito, Giacomo Lauro, disse: «In carcere ho saputo da Ettore Bilardi (imputato con Giuseppe Iamonte dell’omicidio Artuso) che Mancini, il primo uomo politico nazionale ad essere accusato del reato di concorso esterno in associazione mafiosa, doveva aggiustare il processo». L’ultraottantenne politico venne assolto «perché il fatto non sussiste» dal gup Vincenzo Calderazzo dopo tre ore e cinquanta minuti di camera di consiglio.

Insomma, gli Iamonte sono una famiglia storica della ‘ndrangheta calabrese. Non so se il nipote Natale aveva in animo di seguire le orme del nonno. A me, per quello che vale, aveva detto il contrario. Ma aveva anche detto delle cose interessanti sui pentiti, lui che di un pentito è rimasto “vittima”. Per chi avesse voglia, ecco l’estratto dal capitolo. Rileggere le cose che dice a distanza di qualche anno fa un certo effetto, suonano come un macabro presagio. Ho messo in neretto le frasi che mi hanno colpito.

Mi hanno suggerito un nome e un cognome. Lui non ha neanche trent’anni, ma appartiene a una delle cosche più feroci e influenti della Lombardia. Mercoledì 6 ottobre, alle 13.35, gli invio questo sms: «Sono un giornalista del “Giornale” di Feltri, mi chiamo Felice Manti e vorrei scambiare due chiacchiere con Lei per un libro che sto scrivendo. Sto a Milano, mi dica dove e quando. Se le va, possiamo incontrarci». Lui mi risponde alle 14.48, mi dice che è a Roma e che non saprebbe come aiutarmi. Rispondo alle 14.51: «Se passa da Milano si faccia vivo comunque. Grazie». Ok, occasione persa. Sono stato male informato. E invece no. Sono le 14.42 di domenica 10 ottobre. Mi scrive: «Buongiorno, sono a Milano fino a domani sera». «Bene. Domani alle 11 le va bene? Mi dica dove o quando a lei fa più comodo». Al mattino non può. Poi scoprirò il perché: deve andare in carcere a trovare un suo parente. «Domani non riesco a liberarmi prima delle 6 di pomeriggio. Per il dove mi dica lei, per me è uguale».
Alla fine concordiamo dietro la sede del «Giornale». «Sei e mezza, via Dante, angolo via Meravigli». «Ok, a domani».

Lunedì 11 ottobre, ore 16.32

Sono passato dal luogo dell’appuntamento due o tre volte. Addosso mi sento una gran cazzo di paura. Un musicista sudamericano accende la sua pianola e solfeggia. Se penso che questa potrebbe essere la colonna sonora della mia fine mi viene da ridere. E mi faccio coraggio. Passo e ripasso davanti all’incrocio: cerco uno sguardo simile al mio. Rigorosamente coperto dagli occhiali da sole. Forse perché penso di fargli paura. Rido ascoltando il flauto di Pan. Rido, ma ho paura.
Ore 17.06
Per fortuna squilla il telefono. Parlo del libro e sparo cazzate per alleggerire la tensione. Chiamo un ex collega che deve riferirmi l’esito di un incontro romano. Mi dice che stava per non rispondermi, che il mio numero non è agganciato alla sua rubrica. Sono intercettato? Boh, forse. E non da ieri. Ogni tanto, quando certe conversazioni si spostano su terreni scivolosi, parlo come se avessi un maresciallo davanti a me, all’ascolto. E m’improvviso pompiere.
Ore 17.23
Il tempo non passa. Manca ancora un’ora all’appuntamento e io non sono pronto. Se non mi ammazza lui, lo faranno le sigarette che mi hanno quasi ingiallito le dita. In compenso, deambulo senza meta e credo di essermi fatto nuovi amici. Uno fuma un sigaraccio pestilenziale. Alto, magro, capelli lunghi e baffetto alla D’Artagnan. Quello che pare il capo ha i capelli brizzolati e lunghi, occhiali colorati e la faccia di un attore anni Settanta. Sembrano sbirri, chissà. Eccoli di nuovo. Siccome non mi va di sentirmi come un topo, provo a fare il gatto e lo seguo. Eccolo lì, anzi eccoli. Seduti al bar a bere. (…)
Ore 18.33.
Merda. Un suo sms, ha quindici minuti di ritardo. Rispondo con un diplomatico «No problem». Però no problem un cazzo. Devo stare calmo. Basta fumare. Ho la sensazione che sia già qui, che sia venuto a studiarmi. Penso a mia moglie che mi aspetta a casa e che non sa di quest’incontro. E se… Minchia, che film che mi sto facendo. (…) E mi sto pisciando addosso. Mi accorgo di non avere più paura, ma la curiosità è forte. Che faccia ha il rampollo di una famiglia di ’ndrangheta? Resisto alla tentazione di inviargli un altro sms per sapere dov’è. Aspetto.
Ore 18.55
Sms: «Arrivato». Gli rispondo subito: «Giubbotto verde, occhiali neri». L’ho visto. È dall’altra parte della strada, ha una giacca bianca. Un po’ leggerino per il freddo che si è alzato improvvisamente a Milano. Gli stringo la mano, mi accendo una sigaretta e facciamo due passi. A grandi falcate arriviamo in un bar. Uno dei proprietari è di un paese vicino al suo, l’ho portato qui per farlo giocare in casa. Lui si schernisce, sembra stupito. Una coca e una spremuta d’arancia. Lo guardo in faccia, lo scruto. Carnagione scura, occhiali grandi, gel nei capelli. Al collo non ha un crocefisso, ma una medaglietta un po’ sbiadita. Penso che sia un simbolo di famiglia, ma preferisco glissare. Gli chiedo di poter registrare l’intervista, lui ovviamente nega. Ci ho provato. Spengo il telefono e cominciamo a parlare.

«Io non so niente e non voglio centrarci niente», esordisce. Gli spiego del libro sulla ’ndrangheta e ogni volta che parlo delle cosche non so se dire «voi» o «loro». Lui mi toglie dall’imbarazzo. «Mio padre è in galera per il reato di associazione a delinquere. Punto. Non è accusato di nient’altro. Nessun reato, fine». Ok, è prassi. Provo a entrare in confidenza con lui, gli rivelo alcune mie scoperte, faccio nomi. Lui non si scompone. Sembra un ragazzo normale a dispetto dell’incredibile pedigree criminale accreditato alla sua famiglia. Qui, tra Milano e la Brianza, il suo cognome fa paura. Parla sempre dei suoi, dietro le sbarre. Accusa i magistrati di costruire castelli in aria e di mescolare leggende su leggende: Tanto c’è sempre lo scudo dell’associazione a delinquere di stampo mafioso che li tiene in galera. I miei parenti sono stati accusati di tutto, anche di omicidi commessi lontano dalla zona che controllerebbero. Lei sa meglio di me che non è possibile uccidere qualcuno in un territorio che non è di competenza. Lo dicono gli stessi pm, no? E i pentiti? Basta accusare qualcuno, fare i titoloni sui giornali e mettere la gente in galera. Poi dopo tre, quattro, anche sette anni ci sono le assoluzioni che però finiscono in quattro righe. Intanto la gente è in carcere. Non un carcere normale. Un carcere duro. Lei ha la minima idea di cosa vuol dire? No? Glielo racconto io.

Mi rivela che ha fatto tardi perché è andato a trovare un parente detenuto a Milano. Regime da 41 bis, ovviamente, come conviene al calibro del personaggio: Alla sua età di solito la gente è fuori. Lui no. È dentro da diciassette anni. Diciassette anni di carcere duro. Vuol dire un’ora d’aria al giorno in quattro metri quadri. Punto. Nessun contatto con l’esterno, tranne noi. E ora che è a Milano va anche bene. Una volta era rinchiuso a Pianosa. Io ero piccolo, avrò avuto tredici anni. Ma quella volta me la ricordo bene. Siamo arrivati in nave dalla Puglia, il viaggio è durato tantissimo. Io sono partito dalla Calabria e lei sa che cosa vuol dire viaggiare dalla Calabria, in macchina o in treno, vero?

Annuisco.

Arrivati lì, ci hanno chiuso in uno stanzone per un paio d’ore, ci hanno perquisiti e ci hanno fatto aspettare un’altra un’ora. Poi c’è stato il colloquio, che le risparmio. L’ho visto completamente perso, allora meno di oggi. Sa cos’è la fame d’aria? È quella cosa che ti prende già dopo tre, quattro mesi che stai lì dentro. È una patologia, è una cosa che ti rincoglionisce. Non hai idea di quello che sta succedendo là fuori. Se dovesse uscire domani, ma non succederà, non avrebbe idea di niente. Facebook, internet, i cellulari di ultima generazione. Niente. Non sapi nenti. E non potrà nemmeno mettersi a lavorare, visto che ormai è marchiato a fuoco. La nostra visita è stata ed è l’unico contatto vero con l’esterno. Ecco perché non ha mai saputo di quello che ci hanno fatto a Pianosa. Dopo.

Tradisco palesemente la mia curiosità aggrottando le ciglia. Dopo la visita ci hanno messo in un altro stanzone. Senza sedie. Con noi c’era una famiglia siciliana. Avevano tutto: sedie, coperte, roba da mangiare. Noi niente perché non sapevamo niente. Si accampano come se dovessero stare lì per ore. Ricordo che la signora aveva iniziato a mangiare. Io la guardavo incuriosito e lei mi disse: “Ne vuoi? Mangia qualcosa, toh”. Ovviamente non accettai, ma lei insistette. “Mangia. Mangia”. Poi, rivolta a mia madre, dice: “Signora, dica a suo figlio di mangiare qualcosa. Che qua non sappiamo quando ce ne andiamo”. Come in effetti è successo. Sei ore siamo stati lì. Prigionieri anche noi. Sei ore senza sapere se e quando ci avrebbero riportati a terra. Non ho mai rivelato questo episodio al mio parente in carcere, altrimenti non ci avrebbe più fatto andare a trovarlo. Questo è lo Stato. Che tratta i familiari come criminali…

Il suo sfogo spiazza: mettere la ’ndrangheta e lo Stato sullo stesso piano è un’operazione ardita, le circostanze che lui racconta non sono verificabili. Lui insiste. «Voi giornalisti siete buoni soltanto a scrivere le cose che vi dicono i magistrati. Tanto chi vi smentisce, loro?» afferma passando a darmi del tu. «Secondo te è normale che un assassino dopo dieci anni è a spasso, e un presunto mafioso che non ha commesso reati, ma che ha il 416 bis, non esca mai dal carcere duro?» Sembra avermi letto nel pensiero, gli do corda.

Paghiamo la coca e la spremuta, 12,50 euro. Un furto con scasso, dico. Lui sorride. Ci accendiamo la sigaretta per fare due passi. Il ghiaccio ormai è rotto, e credo di essermi conquistato la sua fiducia. Mi racconta un altro episodio. Un’estate era stato fermato dalla polizia sulla spiaggia per un paio di moto d’acqua che si erano avvicinate troppo alla riva. Il giorno dopo la notizia era su tutti i quotidiani locali. Lui veniva definito «il rampollo». «Quando vado in Calabria, ormai solo durante le vacanze, devo comportarmi benissimo. Mi allaccio le cinture, vado piano, parcheggio bene». Sembra quasi una forzatura dell’indole criminale, portata a sfidare sempre e comunque le regole della società che contrastano con le regole della comunità. Quella mafiosa, quella in cui è nato. Lui non ci sta: Qualsiasi cosa faccia, sono e resto figlio e nipote di mafiosi. Anche se non ho fatto niente. Anche se i miei non hanno fatto niente. Lo hanno dimostrato i processi, anche se coi tempi della giustizia italiana. Basterebbe la parola di un pentito, imbeccato dai magistrati o da qualche mafioso, e finirei in galera come mio padre e mio nonno. Con il carcere duro e l’associazione a delinquere non avrei scampo. E dunque mi comporto secondo la legge.

Condannato dal suo cognome. Ci lasciamo così, dopo un’ora, con un’altra stretta di mano davanti alle poste di piazza Cordusio. Arriva un sms dall’amico che lo ha accompagnato all’appuntamento con me. Mi chiede: «Le scriverai queste cose sul suo libro?» E se ne va senza attendere risposta.

 

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