Mafia e ‘ndrangheta, pupi e pupari Così la verità annega tra le bugie
Pupi e pupari, segreti e rivelazioni, misteri e non ricordo. Al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia – come ricorda il Fatto quotidiano – è andato in scena un altro capitolo della commedia chiamata ‘ndrangheta. Che tutto vuole e tutto sa, quando conviene. A tentare di incantare i giudici di Caltanissetta che indagano sulla morte di Giovanni Falcone (l’esplosivo sarebbe arrivato dalla nave Laura C, il supermarket dell’esplosivo in mano alla ‘ndrangheta, come ho già scritto) e Paolo Borsellino c’era il collaboratore Nino Lo Giudice, detto “il Nano”, che ha già fatto tanti casini gettando fango su molti magistrati, e che avrebbe rivelato dopo un pentimento finito male, la verità sul ruolo dei servizi segreti nella strage di via D’Amelio nella quale morì Borsellino. «Faccia di mostro, cioè l’ex poliziotto Giovanni Aiello, mi disse che era stato lui a preparare la bomba e a premere il telecomando di via D’Amelio. Con un cannocchiale era appostato su una montagna e aspettava l’arrivo di Paolo Borsellino per dare il via all’esplosione. Aiello era un agente segreto, mi disse che in quel crimine c’erano lui, l’ex numero due del Sisde Bruno Contrada e l’allora questore di Palermo La Barbera».
Tutto vero? Tutto falso? Verosimile? L’ex pentito prima di deporre al processo di Caltanissetta sulla morte di Borsellino aveva detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone.
Poi si era rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni.
A stanare il ruolo di Lo Giudice come possibile talpa delle trame dietro la strategia stragista del 1992-1993 era stato l’ex sostituto della Dna Gianfranco Donadio, che aveva ricostruito i rapporti tra Lo Giudice e Aiello, riconosciuto come Faccia di mostro (cioè l’agente segreto che avrebbe trescato con la mafia palermitana). Il pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia è legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: secondo Lo Giudice Donadio gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso (allora capo della Dna, prima di diventare presidente del Senato) era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna come abbiamo già scritto è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire.
Adesso che è tornato a pentirsi, è credibile? E i tanti «non so, non ricordo»?. «Dottore – ha detto Lo Giudice al pm che lo incalzava – io ho tentato il suicidio e prendevo psicofarmaci, ecco perché tante distorsioni». E quando l’avvocato di parte civile gli ha chiesto: «Signor Lo Giudice, ci può dire chi sono i suoi suggeritori odierni?» la domanda è rimasta senza risposta perché non è stata ammessa. Ma è questo il punto. I pentiti mescolano il vero e il falso, mandano messaggi cifrati, a seconda di chi ha in mano il loro telecomando. Anche quando si tratta, per esempio, di un magistrato.