Un fucile può riscrivere la storia dei rapporti mafia-ndrangheta
Mafia, ’ndrangheta, trattative con lo Stato e servizi segreti. Tutto ruota e si salda attorno all’omicidio del giudice Antonino Scopelliti, il sostituto procuratore generale in Cassazione che il 9 agosto 1991 era la pubblica accusa nell’ambito del primo maxi processo contro Cosa Nostra. Il magistrato venne ucciso nella sua auto alla periferia di campo Calabro, il suo paese, da due colpi d’arma da fuoco. Fu l’ennesimo delitto eccellente della guerra di ’ndrangheta che aveva insanguinato Reggio Calabria dal 1986 con una media di 100 morti all’anno. La sua morte, voluta dalla mafia ed eseguita dalla ’ndangheta sancì la pax mafiosa tra le famiglie calabresi. E fu il pegno d’onore per ringraziare Totò Riina che, dicono le carte giudiziarie, arrivò in riva allo Stretto vestito da frate per fare da garante alla tregua.
A 27 anni di distanza, e senza nessun colpevole per l’omicidio (lo stesso Riina e i capi di Cosa nostra sono stati scagionati in Cassazione) l’arma dell’omicidio Scopelliti – un fucile calibro 12 – sarebbe stata ritrovata in un fondo agricolo del Catanese dove era stata interrata.
«La scoperta apre nuove e significative prospettive di indagine, e al contempo sembra confermare recenti intuizioni investigative di questo ufficio», ha detto il procuratore capo di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri, che oggi ha dato l’annuncio del ritrovamento dell’arma del delitto nel corso della cerimonia di commemorazione del magistrato ucciso.
Chi ha fatto ritrovare l’arma sa chi sono stati i killer. E forse sa chi sono i mandanti. Nel corso degli ultimi processi alle famiglie di ’ndrangheta i (pochi) pentiti calabresi hanno detto ai magistrati – in aula e durante gli interrogatori (poi secretati) di saperne molto. Il ritrovamento del fucile ne è una conferma. Non è escluso che la ricostruzione giudiziaria che potrebbe dare un nome e un volto a mandanti e autori dell’omicidio possa riscrivere, anche da zero, la storia dei rapporti tra mafia e ’ndrangheta. Soprattutto oggi che, come ha rivelato il pm Giuseppe Lombardo, la latitanza del boss Matteo Messina Denaro – considerato l’erede di Totò Riina alla poltrona di capo dei capi di Cosa nostra – sarebbe gestita direttamente dalle cosche calabresi, probabilmente proprio in Calabria. Se fosse vero, sarebbe un rovesciamento dei rapporti tra mafia e ’ndrangheta, diventata ormai monopolista del traffico mondiale di stupefacenti. Con i boss siciliani ridotti al rango di seconde file.