La tesi del mio libro Prodotto interno sporco (qui il link per comprarlo su Amazon) trova sempre più conferme. L’economia sommersa produce Pil. In particolare, secondo gli esperti della Cgia di Mestre, il lavoro nero presente in Italia vale ben 77,8 miliardi di euro di valore aggiunto. Maglia nera, non c’è bisogno di dirlo, è ancora una volta la Calabria: il tasso di irregolarità è del 22 per cento e l’incidenza dell’economia prodotta dal sommerso sul totale regionale ammonta al 9,8 per cento. Nessun’altra realtà territoriale presenta una performance così negativa.
Esiste dunque un’economia parallela, fatta di lavoro nero ma anche della cosiddetta «invasione fiscale», ovvero di esercizi che per riciclare il denaro delle cosche che arriva prevalentemente dal narcotraffico sono «costrette» a sovrafatturare. Banalmente, un bar emette più scontrini dei caffè realmente serviti, in questo modo il nero si «trasforma» in beni. Perché il caffè che dico di aver servito si ripresenta magicamente, come se lo avessi riacquistato con regolare (sovra)fattura, e il giochino va avanti. Ma questo welfare sotterraneo serve perché impedisce che scoppi la bomba sociale. Lo scrivono gli stessi esperti della Cgia di Mestre: «Il sommerso è anche un vero e proprio ammortizzatore sociale. Quando queste forme di irregolarità non sono legate ad attività controllate dalle organizzazioni criminali (succede molto di rado, nda) costituiscono un paracadute per molte persone che altrimenti non saprebbero come conciliare il pranzo con la cena». Parliamo in Italia di almeno tre milioni di soggetti – lavoratori dipendenti col secondo/terzo lavoro, cassaintegrati, pensionati o disoccupati – che in attesa di tempi migliori sopravvivono «grazie» ai proventi riconducibili da un’attività irregolare. Ai quali vanno aggiunti i furbetti del Reddito di cittadinanza. Una misura che anziché combattere il lavoro nero lo ha sempre di più incoraggiato. I Cinque stelle dovevano sconfiggere la povertà invece hanno aiutato le mafie ad arricchirsi. Un bel… lavoro.