Chissà qual è stato l’ultimo pensiero passato per la mente del 60enne siciliano Paolo Salvaggio prima della pallottola che gli ha spappolato il cervello. Il presunto boss 60enne era stato condannato per droga a farsi altri 10 anni di galera, invece li scontava ai domiciliari dal 2018 per un tumore al polmone. Ieri spensierato andava in bicicletta a fare colazione in un bar-gelateria in piazza San Biagio a Buccinasco, cintura di Milano. Per l’ultima volta. Si sarà accorto del killer? Forse pensava alla figlia che lascia, forse alla moglie, forse a chi ha armato la mano del suo killer che alle 10 l’ha freddato, senza pietà. Bang, bang, bang, bang. Quattro colpi in rapida successione. In testa, in faccia. Il suo trono di reggente tra gli equilibri mafiosi e ‘ndranghetisti nella periferia sud del capoluogo lombardo è già occupato, ma Salvaggio l’ha capito solo stamattina.

Ma come, ma la ‘ndrangheta non era sparita da Buccinasco? E di che si lamenta il sindaco del comune dell’hinterland ad altissima densità mafiosa, che solo qualche settimana fa si vantava di aver vinto la guerra contro le cosche? «L’attenzione deve rimanere alta e noi lo diciamo da anni. Magistratura e forze dell’ordine si occupino in maniera decisa di questo territorio», ora blatera. Illuso. Bentornato sulla terra, sindaco. Quando qualcuno rompe le scatole, la ‘ndrangheta non perdona. A volte per togliere di mezzo qualche testa calda basta un proiettile, a volte un’inchiesta «mirata» contro chi si è messo in testa di pensare da solo. Succede spesso quando i pupi si sentono pupari. Arriva qualcuno e taglia loro i fili che lo tengono in piedi.  Mi viene in mente Luigi Molinetti detto la Belva. Per lo Stato era «dormiente» nonostante fosse uno dei più spietati killer delle guerre di ‘ndrangheta che hanno insanguinato la mia adolescenza, come ha sempre sostenuto Klaus Davi. Stava organizzando una specie di scissione, scoperta “solo” quando il boss Giorgio De Stefano gli ha chiesto una mano per il figliastro Giorgio Condello Sibio, alias Giorgio De Stefano detto «Giorgino», che a Milano aveva qualche problemino a fare affari. La polizia ha captato le sue intenzioni bellicose, le cattiverie sui De Stefano. Le ha registrate. E Molinetti, guarda caso, è tornato dietro le sbarre.

A volte invece la ‘ndrangheta deve fare da sola. È successo con Paolo Schimizzi, sparito forse per mano dei suoi stessi familiari. Forse con Mario Audino, saltato in aria per sbaglio o per fatalità. O come con Salvaggio, e prima di lui con il boss scissionista Carmine Novella , ucciso dentro il bar «Reduci e combattenti» di San Vittore Olona nel luglio del 2008. Solo che il sangue dei boss attira gli sbirri e i giornalisti, come le mosche con la merda, e per la ‘ndrangheta è sempre un problema finire sotto i riflettori. Perché le pallottole rallentano gli affari. Lo sa bene proprio Giorgio De Stefano, che nei giorni scorsi è uscito dal carcere nonostante la condanna a 15 anni e 4 mesi, insieme all’altra mente raffinatissima Paolo Romeo, che di anni se ne è beccati 25 perché è considerato il trait d’union tra politica e cosche, con una spolveratina di servizi segreti deviati. I due a Reggio avrebbero deciso elezioni, nomine e carriere da almeno 40 anni. E sono liberi. Mentre chi rompe le scatole è morto o è in galera.

Tutto normale? Non proprio. Ma per chiarici meglio le idee basterebbe rileggersi il libro Oh mia bella Madu’ndrina (2010, Aliberti editore) scritto con Antonino Monteleone. A parlare con noi è uno 007 a riposo:
«Potrei raccontarti di quando, incappucciato, sono stato condotto a un summit con il gotha mafioso della provincia reggina. In quel caso trattative ridotte».
«Che significa?»
«Che finii in mezzo a una tavola imbandita a festa, con alcuni boss latitanti che noi cercavamo. Ci fecero dei nomi di altri ’ndranghetisti che creavano problemi».
«E che volevano?»
«Dissero: “O li prendete voi o li ammazziamo noi”».
«Li hanno ammazzati?»
«Noi mica vogliamo i morti per le strade. Li abbiamo arrestati»

Stavolta lo Stato è arrivato tardi…