Eppur si muove, avrebbe detto qualcuno. A Reggio Calabria c’è un magistrato coraggioso, come tanti altri suoi colleghi per carità, a cui oggi va il mio pensiero: si chiama Giuseppe Lombardo.

Al processo Meta, uno dei filoni chiave per capire l’evoluzione della ’ndrangheta a Reggio Calabria (e di conseguenza nel resto del Paese e all’estero), Lombardo ha preso una decisione cruciale: chiedere un nuovo capo d’imputazione per i capi delle cosche di ’ndrangheta alla sbarra. Giuseppe De Stefano, Pasquale Condello, Domenico Condello, Pasquale Libri e Giovanni Tegano, secondo il magistrato, sono «dirigenti, promotori e organizzatori dei rispettivi gruppi criminali di appartenenza nell’organizzazione mafiosa “visibile”».
Questo presuppone ovviamente che ci siano anche dei personaggi «invisibili» (su cui si dovrà naturalmente procedere separatamente) a cui dare la caccia. Niente di nuovo, per carità, ma è una piccola svolta su cui bisognerebbe interrogarsi. Quello che si sa – e che con il mitico Antonino Monteleone abbiamo scritto su O mia bella Madu’ndrina, dopo la guerra di mafia del 1991 a cui seguì una pax mafiosa (si disse anche grazie all’aiuto di Totò Riina, che in cambio ricevette il «favore» dell’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, ma forse non è andata così…) le cosche avrebbero creato una struttura verticistica che controlla la città, una specie di Cupola mutuata dal modello mafioso.
Secondo il pm Lombardo Giuseppe De Stefano sarebbe stato investito del carica di «crimine» dal boss Pasquale Condello, che avrebbe diviso con la famiglia De Stefano (con cui era in guerra…) i proventi delle estorsioni. Il cugino Domenico Condello – aiutato da Demetrio Condello – sarebbe stato il suo braccio destro, con Giovanni Tegano invece a supporto dell’azione delle famiglie di ’ndrangheta della città e Pasquale Libri a succedere al fratello Domenico (morto il primo omaggio 2006) nel ruolo di custode delle regole. Custode delle regole, ricordatevi questa frase.
Ma chi sarebbero questi «invisibili»? E che cosa possono (o non possono) fare? Forse bisognerebbe ricordarsi di come si è arrivati alla svolta post guerra di ’ndrangheta, passando dall’omicidio di Antonio Macrì nel 1975 e per la nascita della Liquilchimica di Saline Jonica, in provincia di Reggio che trasformò la ‘ndrangheta nella holding del crimine organizzato come la conosciamo oggi.

Antonio Macrì da Siderno era all’epoca il padrino più potente dell’onorata società: era un fedele conservatore della tradizione e si opponeva al rinnovamento. Quale rinnovamento? Quello di fare affari con lo Stato. La «Santa», che venne riconosciuta solo dopo la sua morte, nasceva con regole di ’ndrangheta contrarie a quelle storiche. Cito un passaggio dal libro: «Le nuove regole prevedevano espressamente la possibilità per il santista di tradire membri della propria famiglia per salvaguardare l’organizzazione. Dunque il santista era autorizzato anche ad avere rapporti con le forze dell’ordine e altre realtà dello Stato. In pratica in quegli anni venne “istituzionalizzato” il compromesso politico destinato inevitabilmente a degenerare nella corruzione».

In un documento-memoriale datato 1984 si legge (lascio intatti refusi e scivoloni grammaticali e sintattici): «Nel frattempo prendeva piede di formazione operativa una società setta denominata a’mammasantissima (o Santa) che (…) aveva programmi delittuosi più vantaggiosi, più lucrosi, più industrializzati e meglio organizzati con promesse con maggior guadagno per tutti e maggior possibilità di controllare il processo. I loro programmi uscivano dalle vecchie regole dell’Onorata Società, in quanto la santa aveva dei propositi come sequestri di persona, traffici di droga e di tutto ciò che portava guadagno. Inoltre lo sterminio totale di chi non si informasse dei loro programmi con la vecchia ’ndrangheta. In quel tempo erano vietate severamente tutte queste cose, la Santa ci ride sopra a questi delitti e reati. L’importante è che si controlli che ciò che si vuole controllare con l’affiliazione, reclutamento in qualsiasi ceto sociale o professionale. Non esiste voto l’importante è che il nuovo fratellizzato alla Santa è a essi facile l’interesse di tutti e della Santa. Questa setta negli anni 1970 aveva dei doppi fini che col tempo perse un po’ di quella finalità che erano al servizio del potere occulto (P2) aveva compiti di squadrone della morte (…). Una volta che tizio fu fratellizzato alla Santa e ne fa parte, tiene nascosto il suo salto di qualità al gruppo originale che ne faceva parte. Pur continuando a frequentare loro e lavorare con entrambi. In caso di scontro si affianca con i santisti come lui scontrandosi con il suo gruppo originale, così gli più facile combatterli, in quanto lui li combatte dall’interno di essi, e i suoi vecchi associati se ne accorgeranno del tradimento quando è troppo tardi perché saranno uccisi eccetera».
Un importante collaboratore di giustizia ha rivelato – anche questi passaggi arrivano dal libro – che «il santista esce dalla ’ndrangheta per entrare in una struttura mista che di certo non possiede le regole dell’onorata società. Bisogna infatti prestare un giuramento in forza del quale il novello santista è obbligato a tradire anche i familiari pur di salvaguardare la santa». Insomma,i «santisti» sono quelli che possono – anzi devono – tessere rapporti con politici, funzionari pubblici, professionisti, eccetera, in spregio alle vecchie regole della mafia tradizionale tanto care al boss Macrì.

Altro stralcio del libro, a parlare è sempre un pentito: «Quando si forma la santa, la formano tre persone e ci partecipano tutti i santisti di zona o città eccetera sul tavolo ci sta un fucile, un bicchiere con acqua e un po’ di veleno, un limone un ago d’oro e un pugnale. I santisti hanno il voto di eleggere il capo santista o capo crimine e allora ogni volta ogni santista potrà venire eletto a capo, ma di solito detiene questa carica gerarchica di capo santista e così il capo crimine, i gruppi più forti. Il capo crimine ha il potere decisionale su tutti i capi santisti e su tutte le famiglie cosche santiste in Italia ed estere. In caso di diverbi e guerre, il capo crimine ha funzione di giudice di omertà e deve essere imparziale, cosa che non è mai, in quanto parteggia sempre per la cosca più forte».

E qui si torna a Domenico Oppedisano, considerato il capo dei capi. Stando alle ricostruzioni del pentito Oppedisano appare più una sorta di presidente di una sorta di Cassazione che decide gli esiti delle guerre di mafia che un capo vero e proprio. Un custode delle regole, verrebbe da dire…

E se a comandare davvero fossero questi «invisibili» che possono anche tramare contro la stessa ’ndrangheta? Chi c’è in quella zona grigia di cui parlano i pentiti (tutti attendibili? Mah!) che gestiscono affari, appalti e consessioni in nome e per conto dei boss? E siamo sicuri che i servizi segreti non c’entrino nulla? Vi ricordate cosa disse uno 007 a Monteleone? No? Ve lo ricordo io:
«Potrei raccontarti di quando, incappucciato, sono stato condotto a un summit con il gotha mafioso della provincia reggina. In quel caso trattative ridotte».
«Che significa?»
«Che finii in mezzo a una tavola imbandita a festa, con alcuni boss latitanti che noi cercavamo. Ci fecero dei nomi di altri ’ndranghetisti che creavano problemi».
«E che volevano?»
«Dissero: “O li prendete voi o li ammazziamo noi”».
«Li hanno ammazzati?»
«Noi mica vogliamo i morti per le strade. Li abbiamo arrestati».

Questa sì che è pax mafiosa…

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