La lobby cattolica e il Papa a Washington
Giovedi Papa Francesco parlerà davanti al Congresso degli Stati Uniti d’America. Data storica, perché è il primo pontefice a tenere un discorso davanti al parlamento americano riunito in seduta comune. Cresce l’attesa a Capitol Hill, specialmente tra i politici cattolici. Che non sono pochi, circa un quarto del Congresso: 25 su 100 senatori (16 democratici e 9 repubblicani) e 134 su 435 deputati, compreso lo speaker, il repubblicano John Boehner, e la leader della minoranza, Nancy Pelosi. La presenza dei cattolici è forte anche nell’amministrazione Obama, a partire dal vice presidente Joe Biden e dal segretario di Stato, John Kerry. Cattolico anche il segretario all’Agricoltura, Thomas J. Vilsack.
Forte la presenza dei cattolici anche tra le fila dei candidati repubblicani alla Casa Bianca, a partire da Jeb Bush che ha lasciato la fede episcopale della famiglia, per convertirsi al cattolicesimo della moglie Columba, conosciuta in Messico. Percorso opposto per Ted Cruz, la cui famiglia cubana cattolica si è convertita ad una chiesa evangelica (il padre è pastore a Dallas). La famiglia dell’altro candidato repubblicano di origine cubana, Marco Rubio, quando lui era bambino si convertì alla chiesa mormone. Ma poi cambiò idea e Rubio a 13 anni fece la prima comunione. Ora il senatore frequenta sia la chiesa cattolica che quella evangelica: evidentemente per non perdere contatti (e voti) con le due comunità. Nel 2012 Rubio ha ribadito di considerarsi cattolico, come anche Paul Ryan, vice di Romney nel ticket 2012.
Sono cattolici convinti anche gli italoamericani Chris Christie, governatore del New Jersey, e Rick Santorum, alla sua seconda corsa per la Casa Bianca. Noto per le posizioni ultra conservatrici, nei mesi scorsi Santorum ha polemizzato con il Papa criticando le sue posizioni sui cambiamenti climatici ed esortandolo a lasciare l’argomento a scienziati e politici.
Ma torniamo alla Casa Bianca. Cattolico è il capo dello staff, Denis McDonough, che viene da una famiglia irlandese del Minnesota con 11 figli, uno dei quali è prete. Lo stesso dicasi per il suo predecessore, Thomas Donilon, il cui fratello lavora come portavoce del cardinale di Boston Sean O’Malley. “Uno dei fratelli Donilon che lavora per l’uomo più potente del pianeta ed un altro per quello che potrebbe diventare il leader religioso più potente del pianeta? Certo questo è un titolo interessante”, scherzava alcuni anni fa Donilon sulla “circostanza straordinaria” che alla fine non si verificò (O’Malley era considerato uno dei papabili nel conclave che elesse Bergoglio).
Intanto Jeb Bush prende le distanze da Ben Carson, che di recente ha dichiarato “mai un presidente di fede musulmana“, aggiungendo che l’islam e la costituzione americana non sono compatibili. L’ex governatore della Florida non attacca direttamente Carson, si limita a prenderne le distanze in modo netto: “Non credo che la religione debba essere un criterio per la scelta di un presidente”, ha detto Bush parlando a un gruppo di giornalisti a Mason City (Iowa). Bush dice di conoscere molti musulmani pacifici che vivono negli Stati Uniti e sono patriottici, alcuni dei quali servono il Paese nelle forze armate. A sostegno della propria tesi Bush cita ad esempio la città di Detroit e dei molti arabi-americani che contribuiscono alla sua rinascita: “Alcuni sono cristiani, alcuni musulmani”. E fare differenze fra gruppi di elettori non è la soluzione giusta (anche se la tecnica, sempre più raffinata grazie ai meta-data e ai social network).
— Foto tratta da The Atlantic