Jesse Owens, la leggenda
Tre giorni sono rimasti scolpiti nella storia dello sport: 3, 4 e 5 agosto 1936. Sono i giorni in cui James (Jesse) Cleveland Owens entrò nella leggenda vincendo la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Berlino nei 100 metri, salto in lungo e 200 metri. Quattro giorni di riposo e si prese un altro oro, nella staffetta 4×100.
Ne parlo sul blog Monticello perché Jesse Owens è una leggenda americana. Ma anche perché, di recente, mi è capitato di vedere un bellissimo film che narra la storia di questo grande campione, “Race, il colore della vittoria” (2016), diretto da Stephen Hopkins.
Nato in Alabama nel 1913, si trasferì con la famiglia in Ohio quando aveva nove anni. Fu un insegnante ad affibbiargli il soprannome Jesse, giocando sulla pronuncia sudista del piccolo James, che amava farsi chiamare solo con le iniziali JC. Nel poco tempo libero che aveva a disposizione (oltre alla scuola faceva dei lavoretti per dare una mano in casa) si allenava nella corsa, sua vera grande passione. Nei campionati studenteschi nazionali del 1933 si distinse con dei risultati davvero brillanti, che gli permisero di ottenere una borsa di studio all’Università dell’Ohio. Nell’ateneo trovò un clima assai poco accogliente, con battute pesanti e provocazioni di stampo razzista, cui però era abituato. Nel giro di poco tempo il suo obiettivo divenne uno soltanto: diventare un atleta di primissimo livello. Ce la fece, grazie al duro lavoro negli allenamenti e ai preziosi consigli del suo allenatore, il meticoloso Larry Snyder.
Jesse Owens partecipò ai Giochi olimpici di Berlino e, come dicevamo, vinse quattro medaglie d’oro. Il suo trionfo per decenni venne ricordato anche per un aneddoto legato ad Adolf Hitler. Quest’ultimo, presente in tribuna durante la finale del salto in lungo (con un atleta tedesco dato per favorito), si sarebbe rifiutato di stringergli la mano. Le cose però andarono diversamente. Lo stesso Owens ricordò quell’episodio nel 1970 nella sua autobiografia (The Jesse Owens Story): “Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto”. Quasi certamente Hitler non rimase contento del successo di Owens, atleta di colore, per giunta contro un campione del proprio Paese (Luz Long). Però l’episodio del mancato saluto, passato alla leggenda, nella realtà fu romanzato.
In realtà l’episodio più grave di razzismo di cui fu vittima Owens avvenne nel suo Paese. Al ritorno da berlino con quattro medaglie al collo, infatti, il presidente Franklyn Delano Roosvelt si guardò bene dal riceverlo alla Casa Bianca. Perché questo clamoroso sgarbo? Roosvelt era razzista? Il presidente lo fece per motivi di opportunismo politico: essendo impegnato in una dura campagna elettorale, preferì non ricevere un atleta di colore per non subire il biasimo dagli elettori degli stati del Sud. Fu, dunque, un triste calcolo politico che privò Owens del giusto riconoscimento cui avrebbe avuto diritto. Il presidente Dwight Eisenhower nel 1955 lo nominò “ambasciatore dello Sport”, ma il vero e proprio risarcimento morale arrivò solo nel 1976 quando il presidente Gerald Ford gli assegnò la “Medaglia presidenziale della libertà”, il massimo riconoscimento civile americano. Nella frase con cui accompagnò la medaglia Ford scrisse: “Owens ha superato le barriere del razzismo, della segregazione e del bigottismo mostrando al mondo che un afro-americano appartiene al mondo dell’atletica”.
Jesse Owens morì a 66 anni a causa di un cacro ai polmoni. Per tutta la vita non smise mai di ringraziare un uomo, Charles Riley. Era il suo allenatore di atletica delle scuole medie. Fu lui a “pescarlo” dal cortile della scuola e a metterlo nella squadra di atletica.