Usa, ponti a rischio
Quello dei ponti che crollano è un problema molto sentito anche negli Stati Uniti, al punto che il presidente Trump lo scorso febbraio ha annunciato un piano da 1500 miliardi di dollari per risanare e modernizzare le infrastrutture del Paese, con 200 miliardi di fondi federali e la parte restante a carico di Stati e municipalità.
Molto preoccupante è il dato fornito dalla American Road & Transportation Builders Association (Artba): sul territorio americano sono 54.259 i ponti con “carenze strutturali”. La definizione ”structurally deficient”, secondo gli standard del Dipartimento dei Trasporti, interessa quei ponti che presentano uno o più elementi chiave in condizioni considerati non ottimali. Nella categoria, quindi, rientra circa un ponte su 10 tra quelli esistenti. Le infrastrutture che presentano carenze, riferisce l’Artba, sono interessate ogni giorno da 174 milioni di passaggi e hanno un’età media di 67 anni.
L’emergenza riguarda soprattutto i seguenti Stati: Iowa (5.067 ponti), Pennsylvania (4.173), Oklahoma (3.234), Missouri (3.086) e Illinois (2.303). La necessità di una imponente opera di manutenzione non riguarda solo i ponti. Secondo l’associazione nazionale degli ingegneri servirebbero 4.500 miliardi di dollari entro il 2025 per interventi massicci sull’intera rete delle infrastrutture: non solo ponti, ma anche strade, ferrovie, aeroporti.
Ancora peggiori le stime del Wall Street Journal, che in un articolo del 2017 scriveva che erano circa 84 mila i ponti che la Federal Highway Administration considera “funzionalmente obsoleti”. L’avvocato Barry LePatner, autore del libro “Too big o fall: America’s falling infrastructure and the way forward” , ha detto al Wall Street Journal che “il problema è destinato a crescere poiché le risorse economiche sono insufficienti” per fare i lavori necessari, compresa la manutenzione dei ponti in buono stato.
Trump, come dicevamo, ha annunciato un piano da 1,5 trilioni che punta alla stretta collaborazione tra pubblico e privato, vincolato ai finanziamenti provenienti dalle amministrazioni locali. Il piano si basa su 4 punti cardine: generare i fondi, velocizzare il processo della concessione delle autorizzazioni per le costruzioni, investire in progetti infrastrutturali nelle zone rurali e favorire la qualificazione professionale della forza lavoro.
Il piano di Trump è ambizioso, anche se copre un terzo delle spese necessarie, secondo le stime fornite dall’associazione degli ingegneri. Dal punto di vista finanziario è un piano che, a differenza della tradizione, riduce fortemente l’investimento diretto da parte del governo federale, che tradizionalmente oscillava tra il 50 e l’80% del totale. Qui, invece, si punta prevalentemente sui fondi locali, cercando di premiare con sovvenzioni federali chi è più bravo a trovare risorse.
Per i democratici i 200 miliardi promessi da Trump sono troppo pochi, e nel loro piano alternativo ne mettono sul piatto mille. Il problema sono i conti da far quadrare, il debito pubblico (sempre più grande) e il deficit. Come reperire i fondi necessari per sistemare le infrastrutture? La maggior parte proviene dalle tasse federali sui carburanti (la metà rispetto alle accise che abbiamo in Italia). Questa carenza di fondi ha indotto 25 stati ad aumentare le tasse locali sulla benzina o cercare misure alternative per reperire le risorse.
Il tema, quindi, oltre a quanti soldi serviranno e quanti lavori si dovranno fare con urgenza, è soprattutto questo: chi dovrà pagare. Utilizzatori (automobilisti), contribuenti, investitori. La decisione è complessa e interessa i cittadini-elettori, i politici ma, inevitabilmente, anche le potenti lobby.