Ronald Reagan non è un nome qualunque nel Pantheon della destra americana. Ecco cosa diceva a proposito dei dazi: “Dovremmo stare attenti ai demagoghi pronti a dichiarare una guerra commerciale contro i nostri amici, indebolendo la nostra economia, la nostra sicurezza nazionale e l’intero mondo libero, il tutto mentre sventolano cinicamente la bandiera americana”.

E ancora: “Le guerre commerciali costruite sui dazi danneggiano tutti. All’inizio possono sembrare un atto patriottico, ma quello che avviene sul lungo termine è disastroso: ancora più dazi, fallimenti a catena e milioni di posti di lavoro persi”.

Reagan non era un Nobel per l’economia, ma aveva capito bene certi meccanismi, a partire dalla conseguenze di certe decisioni prese dai suoi predecessori negli anni della Grande Depressione, quando l’aumento delle tariffe peggiorò la crisi economica è impedì la ricrescita. I convincimenti di Reagan furono alla base della nascita del Nafta (Accordo nordamericano per il libero scambio”) con Messico e Canada, portato a compimento dal suo sccessore alla Casa Bianca, George H. W. Bush.

Le parole e le idee di Reagan sono tornate oggi di estrema attualità, in funzione anti Trump. Ma non vengono rispolverate strumentalmente solo dai democratici quanto anche da una parte dei repubblicani, quelli rimasti fedeli alla visione liberista e anti protezionista del partito dell’Elefante.

Ovviamente non si possono paragonare gli anni Ottanta con i tempi nostri, ma le basi dell’economia restano quelle.

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Facciamo un passo indietro. In un discorso in Pennsylvania nel 2016, durante la campagna elettorale, Trump citò Reagan ricordando che l’ex presidente aveva tassato le moto provenienti dal Giappone (al 49%) e i semiconduttori del 100%. Come a voler sottolineare: se lo ha fatto lui perché non dovrei farlo anche io? In verità vi sono delle differenze importanti.

La rivista The Atlantic nel 2018 scrisse che Trump non era Reagan: “Le azioni di Reagan erano più mirate e ha anche promosso alcune politiche di libero scambio insieme a loro, tra cui la proposta di un mercato comune nordamericano. Forse più importante è il fatto che, secondo un recente studio, non sono state davvero le tariffe, ma un’altra politica più complessiva, ad aiutare le aziende statunitensi a competere in un’economia globale: la modifica del codice fiscale da parte di Reagan nel 1981, che ha istituito il credito d’imposta federale per la ricerca e la sperimentazione per sovvenzionare l’innovazione…. Negli anni ’80 questo stimolo ha spinto le aziende a innovare e a recuperare terreno rispetto ai loro concorrenti stranieri.. Nella seconda metà degli anni ’70 la produttività manifatturiera degli Stati Uniti era in ritardo rispetto a quella di altre economie avanzate e la concorrenza tecnologica di Giappone, Germania e Francia stava aumentando. Mentre i cittadini statunitensi avevano depositato il 70% delle domande di brevetto negli Stati Uniti nel 1975, quella quota era scesa a quasi il 60% entro il 1981”.

Ggli Stati Uniti avrebbero potuto isolarsi dall’economia mondiale, e pensare solo ai propri interessi, invece decisero  di “sovvenzionare le loro industrie in modo piuttosto forte”. La concorrenza internazionale, secondo Akcigit e i suoi colleghi, ha due campi da gioco: il mercato interno di un’azienda e i suoi mercati esteri. Nelle economie aperte, le aziende devono prima impegnarsi molto per migliorare la loro produttività e la qualità dei beni, altrimenti saranno vulnerabili ai concorrenti stranieri che invadono il loro territorio. In secondo luogo, le grandi aziende possono guadagnare quote nei mercati esteri.

“In assenza di tariffe, i sussidi per la ricerca e lo sviluppo incoraggeranno le aziende a fare investimenti a lungo termine per migliorare la loro posizione competitiva in patria e all’estero, hanno scoperto i ricercatori. Dopo la creazione dei crediti d’imposta federali e statali per la ricerca e lo sviluppo, le aziende statunitensi hanno iniziato a recuperare terreno rispetto alle loro controparti straniere; l’intensità della loro spesa per la ricerca è aumentata e, dopo aver continuato a scendere per alcuni anni, la loro quota di domande di brevetto è rimbalzata a metà degli anni ’90 a oltre il 60%”.

Qualcuno oggi potrebbe dire che The Atlantic è una rivista liberal marcatamente anti Trump. Può essere, ma cita Reagan, che non era di sinistra ed è sempre stato un totem per il Partito Repubblicano. Quindi il discorso è complesso e non si può ridurre la questione dazi a un semplicistico e inutile “tifo” pro o contro Trump.

 

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