Estetica e metafisica della giovinezza
Cos’hanno in comune Un mercoledì da leoni di Milius, Il trattato del ribelle di Jünger, il demone dell’assoluto di Malraux, Hermann Hesse e Novalis, Clint Eastwood e Stendhal? L’idea di una giovinezza diversa da quella biologica, fuoco inestinguibile che ci portiamo dentro, che arde in noi anche nelle fasi notturne della vita, maestra dello stupore come del disincanto. A raccontarci questa stagione, estetica e metafisica, è Riccardo Paradisi nel suo splendido Un’estate invincibile, appena pubblicato da Bietti nella collana l’Archeometro. Un vademecum indispensabile per almeno tre generazioni (inclusa quella di chi scrive), un libro che è anzitutto uno specchio, capace di restituire un’immagine diversa di sé in base a chi si accinga alla sua lettura. E che per questo è bene leggere e soprattutto rileggere.
«Il trentesimo anno, mese più mese meno, è sempre l’età del Testamento… L’infanzia muore a quattordici anni, e la giovinezza un po’ prima dei trenta». Robert Brasillach narra il fatale infrangersi della gioventù alle soglie della quarta decade. Ebbene, libri come quello di Paradisi sono antidoti alla maledizione scagliata dal Patrizio dei Sette colori (tra l’altro, autentico inno alla gioventù) sui trent’anni. Trent’anni di treni presi come perduti, oceani e piazze inondate dal sole, mediterranee come atlantiche, carmi e conventi, ultimatum rivolti a Dio, agli altri, a noi stessi… Destini. Ecco, Un’estate invincibile è un gioco di destini. Che non risparmia nemmeno il lettore: mentre era in lavorazione, questo libro è stato letto da almeno tre generazioni. Ognuna delle quali ha avuto tra le mani qualcosa di differente. Ognuna delle quali si è sentita meno sola.
Un libro dedicato alla giovinezza, che ci spiega anche cosa non è giovinezza. Non lo è quella artefatta, emulata dai forever young a suon di lifting e viagra. Non lo è il rampantismo straccione che si pasce di una rassegnazione arrogante, e nemmeno il cinismo che, nell’incapacità di guarire se stesso, si appaga nello spegnere il fuoco di chi i suoi vent’anni li vive anche a trenta o quaranta. Nemmeno è giovinezza quella «al potere», mobilitata dai regimi di ieri e oggi, trasformata alternativamente in carne da macello o merce di consumo.
La giovinezza, ci racconta Paradisi, ha una sua estetica, che attraversa libri come Un’estate incantata di Bradbury e i diari di Cesare Pavese, i capolavori di Chateubriand e di Chatwin, i libri di Stenio Solinas, che ha firmato l’introduzione al volume. A emergere è un daimon in cerca di se stesso, in una società vecchia, la quale, muovendo una costante guerra ai giovani, ne scimmiotta le pose, ne resuscita il cadavere, giovani fuori tempo massimo in cerca di un ultimo trampolino… Ecco l’esito grottesco di una vita intesa in senso materialistico.
Già, perché, oltre a un’estetica, la giovinezza ha anche una sua metafisica: è la capacità di assecondare il destino, realizzandolo attivamente, precipitandolo nel divenire delle cose per cercare – e, dunque, trovare – la misura luminosa di quel che rimane. «Nel tuo nulla scoprirò il mio tutto» dice Faust a Mefistofele nel Regno delle Madri, in un dialogo che fu molto caro a Rudolf Steiner. Questa, e nient’altro, è la giovinezza, che si rinnova e rinnova, oltre le linee d’ombra che la vita ci presenta. Oltre i trent’anni, una delle età – è sempre Brasillach a parlare – più misteriose ed enigmatiche dell’esistenza umana.
C’è una scena di Un mercoledì da leoni particolarmente significativa, anche perché ha regalato la copertina al volumetto. I tre moschettieri Jack, Leroy e Matt hanno appena affrontato la selezione delle reclute per il Vietnam, cimentandosi in mirabolanti imprese per non partire. Uno non ce l’ha fatta. È Jack, che sulla copertina vediamo scrutare l’orizzonte liquido, provando a immaginarsi che un Vietnam possa addirittura esistere al di là di quell’ultima frontiera, tanto familiare eppure, improvvisamente, altrettanto ignota. Lo troviamo così, alla vigilia della partenza, osservare distratto il mare crepuscolare, prima di lanciarsi in una cavalcata sulle onde di un’estate che sembra volgere al termine. Accompagnato dalle volute wagneriane di Basili Poledouris, questa volta gareggia da solo, per poi andarsene, la tavola sottobraccio, verso un tramonto oceanico. La fine? Per nulla: al ritorno ritroverà gli amici, luci accese e dopo spente, fratelli di una stagione indomita e interminabile. La stagione cantata da Albert Camus, la quale, assieme a quella di Milius, quintessenzia – e lo scriviamo senza esagerazioni – uno dei più bei libri di sempre: «Nella profondità dell’inverno ho imparato, alla fine, che dentro di me c’è un’estate invincibile». Da leggere.