Il testo implicito di Nicolás Gómez Dávila
Nel magma post-moderno che avviluppa il nostro tempo ci sono autori che non si arrendono, proponendo per la crisi in cui viviamo soluzioni antiche e nuove a un tempo, capaci di farsi carico di un’eredità spirituale e intellettuale, proiettandola però nel futuro, come proposta sempre nuova. Uno di questi è Nicolás Gómez Dávila, stilista del Verbo creatore, maestro dell’aforisma graffiante e chirurgico, i cui pensieri sono un’autentica oasi nel deserto. Un deserto che cresce, come scrisse Nietzsche più di un secolo fa, e che non ha smesso di crescere. «Un angelo prigioniero nel suo tempo» l’aveva chiamato il compianto Franco Volpi, che aveva curato, per Adelphi, parte dei suoi Escolios, usciti nel 2001 e nel 2007 come In margine a un testo implicito e Tra poche parole. Recentissime, invece, le sue Notas, appena pubblicate da Circolo Proudhon, giovane casa editrice legata a Intellettuale Dissidente. Curati da un gruppo di giovani studiosi, i due volumi sono la traccia fulminea di un autore che seppe, con acume e lucidità, destreggiarsi tra le Scilla e le Cariddi del nostro tempo. Distillando, come scrivono i curatori, una filosofia dell’avvenire, raccordo tra tradizione classica e quella moderna. Un’alternativa concreta alla barbarie del nostro tempo, orfano degli dèi e sradicato.
Speculum Europae, dalla sua Colombia si rivolse al Vecchio Mondo, ripercorrendone la storia, indossandone le maschere. Lui, formatosi giovanissimo a Parigi, che nel 1949 compì un lunghissimo viaggio attraverso un’Europa appena uscita da due conflitti mondiali. Attraversare il Vecchio Continente, avrebbe scritto nelle Notas, «è come visitare una casa nella quale i domestici ci mostrano le sale vuote in cui vi furono feste meravigliose». Eppure, la sua opera è il compendio di tutta la migliore cultura europea, letteraria come filosofica.
Una vita interamente dedicata a lettura e scrittura, trascorsa in una biblioteca labirintica e colma di rarità, in cui spesso rimaneva sino a notte inoltrata. Immerso nei suoi libri, aborriva la lettura dei giornali, non guardava la televisione, detestava l’attualità e rifiutò parecchie cariche politiche che gli vennero offerte, dall’uno come dall’altro governo. La sua vocazione era tutta lì – che farsene di riconoscimenti pubblici? Se la vita è un sogno – e lo è, statene pur certi – allora è meglio percorrere le gallerie notturne dell’esistenza in cerca di «immagini luminose che il sonno fa sorgere al di là del torrente della vita, come simboli dell’essere possibile che in noi dorme e che il nostro fervente amore anela. Tutti siamo la promessa di qualcosa di più alto».
Come restituire queste immagini? Attraverso trattati filosofici? Meglio gli aforismi. Le sue opere sono rivelatrici: Escolios a un testo implícito (1977), Nuevos escolios a un testo implícito (1986), Sucesivos escolios a un testo implícito (1992)… Pensieri che sono glosse a testi mai scritti o ancora da scrivere, commenti che questi testi suggeriscono, al lettore che sappia intravederli. Una questione di vocazione e onestà («ciò che non è frammento è inganno»), ma forse anche di elezione. Sta al lettore sintonizzarsi su quel testo implicito, autentica costante dello scrittore colombiano: se non è in grado di farlo, che nemmeno legga questi libri, che nemmeno affronti quella che è «l’espressione verbale più discreta e più vicina al silenzio». Ecco il segreto di uno stilismo acuto, affine a quello di altri grandi interpreti dell’aforisma, come Rivarol e Cioran, La Rouchefoucauld e Montaigne, Artaud e Pascal.
È a questo fulmineo baluginio dell’Essere che Dávila affida il proprio canto. In un mondo di macerie porta avanti, vox clamantis in deserto, una verità antica, antichissima, che denuncia l’industrializzazione, la massificazione, l’omologazione degli spiriti, i Vangeli laici politici. Un reazionario, come si definì lui stesso, in senso però assoluto, nel segno del rifiuto totale di un mondo in cui nulla va conservato. Meglio lavorare sull’uomo: «La maggioranza degli uomini non sono che delle prove o dei meri tentativi. La nostra vita è un esperimento destinato al disastro». A salvare l’uomo non è la morale o la politica, semmai l’estetica, apice di ogni filosofia. E la bellezza non è “soggettiva”, come si suol dire, ma è insita nelle cose, incastonata nel mondo, «simbolo immobile della mobilità. La bellezza è quello che crea in noi l’unità». Una bellezza la cui valenza è addirittura teogonica: «Quando la bellezza si rivela, da qualche parte nasce un dio». Definizioni che basterebbero a squalificare parecchie delle produzioni artistiche del nostro tempo…
Era naturale che uno spirito simile rifiutasse le derive ultrademocratiche come quelle totalitarie, le mistiche delle collettività o del sangue, optando per un’aristocrazia naturale ma non biologica, basata sullo sviluppo intellettuale. Era implicito nelle premesse. Leggere per credere: «Il mio essere si compie solo nella rigida vetta dell’idea o nella bassa e soffocante valle dell’erotismo. La meditazione più astratta sullo spirito, le sue norme, i suoi princìpi, o la tiepida selva dei gesti voluttuosi. Mi commuove solo l’alba pallida che mi trova disperato davanti a un problema insolubile o a un corpo inviolabile, che non tradisce neppure la sua complicità». Siamo la promessa – ma anche la traccia – di qualcosa di più alto.