Dylan Dog, trent’anni a indagare il nostro orrore
Al numero 7 di Craven Road, dalla fine del 1986, vive un detective molto singolare. Ora, a Londra di Craven Road ce ne sono due, la più centrale sta a Westmister: in ogni caso, per trovarlo basta seguire il suono del suo campanello, un urlo acutissimo. Fa niente se ad aprire ci sarà il suo assistente, vestito da Groucho Marx, le cui battute terribili costringerebbero alla fuga il cliente più ostinato.
Anche se vive in Inghilterra, questo detective è italianissimo: stiamo parlando, ovviamente, di Dylan Dog, l’eroe bonelliano che da tre decadi ha scelto di confrontarsi con l’orrore del nostro tempo. I suoi albi sono tra i più venduti in Italia e, come altri fumetti bonelliani, continuano a resistere, nel corso degli anni, alle mode generazionali. Per fortuna Sergio Bonelli non si scoraggiò di fronte al flop iniziale della serie (poche migliaia di copie al mese per circa un anno), ma continuò, con inguaribile ottimismo e caparbietà, a produrla. Il tempo gli diede ragione.
Il Nostro è un detective, insomma, che però si occupa di occulto e soprannaturale. E non è certo il primo: tra i suoi predecessori il più famoso è John Silence, l’esploratore dell’ignoto partorito dalla penna di Algernoon Blackwood, associato alla esoterica Golden Dawn, cui aderirono altri scrittori, come Arthur Machen e Edward Bulwer-Lytton, ma anche Aleister Crowley (indimenticabile il suo Moonchild), Bram Stoker e William Butler Yeats. In barba a chi crede che la letteratura si esaurisca nel realismo a tutti i costi…
Ma il nostro investigatore è molto più pop: ha le fattezze di Rupert Everett, tanto per cominciare – e proprio su richiesta del suo creatore, Tiziano Sclavi. E l’attore ricambierà il favore nel 1994, interpretando un personaggio analogo nel film Dellamorte Dellamore di Michele Soavi, la pellicola decisamente più dylandoghiana – o dylaniata, come si dice tra i fan – tra quelle a lui dedicate apparse sul grande schermo.
Ora, quando la cultura “alta” si trova di fronte a universi come quello dei fumetti, spesso la reazione non va oltre un sopracciglio inarcato. I fumetti come letteratura di serie b, svago per adolescenti ritardati o adulti rimasti bambini… Forse potrà valere per altre produzioni del genere, ma come giudicare così storie spesso coltissime, che ripropongono, sia nelle trame che in citazioni, elementi di giganti della letteratura come Agatha Christie, Mary Shelley e Edgar Poe, Stephen King e Howard Phillips Lovecraft? Come ha recentemente scritto Matteo Fais su «l’Intellettuale Dissidente», la silhouette dell’investigatore di Craven Road (omaggio degli autori al Wes Craven di Nightmare) non sfigura accanto a quelle di altri classici.
Ma il messaggio di questo Old Boy è anzitutto esistenziale, formativo: da quando ha lasciato la polizia e ha cominciato a indagare per conto proprio, ha scoperto che spesso l’orrore non abita lontani castelli o lande desolate ma si annida nella quotidianità, nelle grigie uniformi degli impiegati della City o dietro le tendine delle case londinesi. Ovunque, anche negli interstizi della realtà; come Jorge Luis Borges, che trovò il suo Aleph in un sottoscala. Basta solamente superare le apparenze, la superficie delle cose, la normalità borghese.
Questo ha imparato Dylan Dog, eroe moderno, anzi antimoderno, che ha paura di prendere l’aereo e non usa il cellulare, che alle email preferisce le lettere, alla realtà virtuale quella reale, fatta di cose e persone. Un eroe che non “condividerebbe” su Facebook le proprie esperienze ma le affida, armato di penna d’oca e calamaio, alle pagine ingiallite del suo diario, al baluginio di una vecchissima lampada. Un eroe che non crede nello strapotere del denaro e non ha paura di lavorare gratis, specie se a chiederglielo sono clienti bisognosi. E non è che navighi nell’oro… E nemmeno è infatuato dalle armi: usa una vecchia pistola, che di volta in volta gli lancia Groucho, inseparabile Sancho Panza nelle sue esplorazioni dell’ignoto. L’ha trovata, giovanissimo, in una grotta, assieme a uno dei suoi amori perduti, Marina Kimball (la cui storia è raccontata in uno dei numeri più belli di sempre, Il lungo addio).
Ma, soprattutto, Dylan è nemico delle verità assolute ed eroe del dubbio, ai giudizi lapidari preferisce solitarie meditazioni, magari accompagnate dal suo clarinetto e dal Trillo del Diavolo di Tartini. Un eroe che risolve i casi non affidandosi alle prove del Dna o a tecnologie avanzatissime ma arrendendosi a improvvise intuizioni, fulminei colpi di genio che lo raggiungono mentre costruisce il veliero che troneggia sulla sua scrivania. Un modellino che, a distanza di tanti anni, non ha mai completato. E che forse mai finirà.
Un antieroe, insomma, le cui indagini affrontano tutte le questioni fondamentali della modernità: dalla prepotenza della burocrazia (tanto da essersi immaginato un Inferno fatto di contabili e grigi funzionari, condannati a sbrigare pratiche per l’eternità) al rapporto con il diverso e la diversità (si veda l’indimenticabile Johnny Freak); dall’invadenza della tecnica alla politica politicante, spesso ritratta senza peli sulla lingua, nei suoi aspetti deteriori; dalla salvaguardia del patrimonio naturale di fronte agli sfaceli dell’industrializzazione selvaggia ai pericoli connessi alla scienza, fino alla critica dei totalitarismi.
Nel 1996, a un decennio dal mitico primo albo La notte dei morti viventi, Claudio Villa (bonelliano dal 1982 e autore dello studio sull’immagine di Dylan Dog) ha realizzato, su Le vie dei colori di Claudio Baglioni, una striscia in cui le parole visionarie della canzone si animano intorno a Dylan Dog. Disponibile su youtube, è forse il tributo più bello all’anima di questo moderno avventuriero, i cui sogni hanno accompagnato e continuano ad accompagnare generazioni di lettori. La storia parte dalla calma notturna di un appartamento, per poi spingersi oltre il muro del sonno, al di là della stessa fantasia. E infine tornare là dove è partita. L’abbiamo già detto: l’Aleph si trova anche nei sottoscala. Basta saperlo intravedere, senza fermarsi alla realtà materiale.