Cioran: dalla parte dei vinti
«Il male è il nostro senso ascendente; la sconfitta, la nostra elevazione.» Parole che condensano un modo di affrontare le cose, uno stile esistenziale, una vocazione riassunta da quello straordinario cantore della disfatta che fu Emil Cioran nel suo Breviario dei vinti II, appena uscito per Voland nella traduzione di Cristina Fantechi. Non è l’unica novità in lingua italiana dello scrittore romeno: recentissime anche le sue Divagazioni, pubblicate per i tipi della torinese Lindau nella traduzione e curatela di Horia Corneliu Cicortaş. Entrambi risalenti agli anni Quaranta, entrambi scritti in romeno, anche se il secondo è accarezzato dalle volute stilistiche di quel francese che diventerà patria d’elezione linguistica di Cioran, tra i massimi esponenti di una generazione – Demetrescu, Ionesco ed Eliade, tra gli altri – per la quale l’esilio fu più di un destino biografico: una condizione metafisica, uno stato dell’anima. Da giuridico, per questi testimoni del XX secolo l’espatrio divenne spirituale.
Leggere un autore come Cioran è imbattersi in un destino deliziosamente antiumano e antimoderno, che fustiga l’uomo impietosamente, senza concessioni di sorta. Ma è anche una lettura profondamente corroborante: quante le risate scatenate dagli anatemi del solitario dei Carpazi… Il piacere dell’invettiva, le stilettate contro conformismi e perbenismi, le ascesi conquistate in interminabili notti bianche. Altro che nichilismo, altro che decadentismo!
Una verve che il suo Breviario dei vinti ci trasmette interamente. In una civiltà che da Omero in poi ama l’azione spettacolare, la vittoria da cantare, le donne i cavalier l’arme gli amori, Cioran scommette sulla disfatta: vuole trasformarla in superamento, sublimarla in destino. Donarle un breviario, finalmente. Non che la vittoria non meriti di essere cantata, anzi – ne ha parlato di recente Stenio Solinas nel suo acuto pamphlet Le olimpiadi come la vita: l’importante non è partecipare. Ma a vedere le facce di certi vincitori, la loro stoffa interiore, quel puritanesimo da primi della classe…
Sennonché l’uomo è anzitutto un paria del Paradiso terrestre e la storia si risolve in una serie di variazioni su un tema antichissimo: la cacciata, la caduta, l’esilio nel tempo. Qui, scrive nel Breviario, «lo smacco è il coronamento delle vite eccezionali». Dimmi come sai perdere e ti dirò chi sei, sembra dirci Cioran, perché «ciò che è grande è destinato al crollo, ogni misura è legata in modo fisiologico all’incalzare di un epilogo». Un senso delle cose ultime che contraddice ogni idea di vittoria in senso assoluto. Eroe non è chi vince sempre, ma chi sprofonda attivamente nel baratro, chi all’occorrenza è in grado di percorrere il cammino della sconfitta: «Chi cade sempre in piedi è un disertore dell’Assoluto».
È singolare leggere certe cose in un’epoca come la nostra, preda di un progressismo che sbatte le sconfitte (e gli sconfitti) nelle cantine della storia, misurando tutto in base all’utile e all’efficace, dimenticando la somma nobiltà che può annidarsi nella sconfitta. Anche perché, come spesso è stato detto, una civiltà che non sa perdere nemmeno sa vincere… Come esercizio intellettuale avremmo bisogno di uno storiografo dei disastri, un Plutarco delle sconfitte, un Erodoto del fallimento, che non abbia timore di scrivere la storia dalla parte sbagliata, da tutte le parti sbagliate.
Aprire nuovi sentieri, scoprire il piacere di sconfinare in territori banditi. Cioran l’ha fatto parecchie volte, e le sue Divagazioni stanno a dimostrarlo, autentiche radiografie dei capisaldi del mondo moderno, confutazioni dei princìpi che reggono la nostra civiltà. Qualche esempio? La nazione: «La forma assunta dal peccato originale con il sostegno della polizia». L’altrismo a tutti i costi: «La vita è sopportabile solo per il fatto che nessuno s’identifica col dolore altrui», quella stessa vita che «fa di ognuno di noi un proscritto, e di ogni nostro simile un boia». Le religioni: «Quel che disgusta è il loro sforzo di legalizzare a ogni costo l’aspirazione illegittima a vivere». La virtù: «Insipida e inverosimile; astorica e irreale»; le bassezze: «Una volta soppresse, nel verme umano non resta più nulla di appassionante». La società: «Un formicaio che crolla per eccesso di zelo; formiche impazzite dal fardello delle proprie virtù». Il buonismo: «Le confessioni “elevate” infondono una noia mortale». L’impegno, l’engagement: «Colui che si vota a un “ideale” lo fa per non restare faccia a faccia con se stesso». Il vangelo del lavoro, trasformazione della maledizione di Adamo in redenzione e chiave di volta di comunismo e capitalismo, ha «convertito l’operosità in dannazione, il lavoro in sfortuna e la fretta in anatema. L’uomo è una formica bestiale». Amore e odio: fratelli gemelli, «assegnano troppa importanza all’uomo». La speranza: «Associare l’idea di possibile al cancro universale». La politica: «Il partigiano di una setta politica vive l’ossessione della maiuscola, esattamente come ogni credente».
Tutti princìpi da cui tenersi a debita distanza, insidiosi quanto falsi. Che fare, allora? Meglio assumere un atteggiamento stoico, «esercitarci nella padronanza di sé, curare un’educazione contrita e assumere l’atteggiamento riservato delle tristezze tramontate. Un ideale di eleganza nell’inferno…».