Ray Bradbury (2012-2017)
Ray Douglas Bradbury è stato chiamato in tanti modi, ma ne prediligeva uno: narratore di storie. Definizione più che mai appropriata di un uomo che, nel corso della sua lunga vita, si è cimentato in generi letterari e artistici diversissimi tra loro, dai romanzi ai racconti, dalla drammaturgia alla televisione, fino alla Settima Arte. Un poeta dello spazio profondo, un aedo di Marte (scoperto grazie al mitico John Carter di Edgar Rice Borroughs, tra le sue letture preferite) innamorato di quella lunga estate che è l’infanzia, l’età d’oro della vita immortalata in capolavori come L’estate incantata (Dandelion wine, a giudizio di chi scrive il suo più alto esercizio narrativo) e Fine dell’estate. Il suo orologio interiore, come amava dire, si era fermato a quattordici anni. Quanto a quello biologico, smise di ticchettare esattamente cinque anni fa. L’allora presidente degli Stati Uniti lo ricordò così: «La sua capacità di narrare storie ha ridisegnato la nostra cultura e allargato i nostri orizzonti. Ma Ray ha anche capito che la nostra immaginazione può essere usata come strumento di comprensione ed espressione dei nostri valori più preziosi. Non c’è alcun dubbio che le sue parole ispireranno ancora molte generazioni». Era il 5 giugno 2012.
«Lo stile è verità»: sono queste parole a descrivere al meglio un astro che per quasi settant’anni ha illuminato la letteratura occidentale. Le ripeteva spesso, come un mantra. Lo stile è tutto: nella letteratura, nella vita. Bradbury si era formato in totale indipendenza nelle biblioteche, lontano dalle università e dalle giurie dei premi, dai comitati redazionali e dalle riviste, dalle mode del momento. Non si trovava a suo agio tra i protagonismi degli scrittori, tra i lacchè dell’opinione pubblica e le vestali del potere. Lo sapeva bene, lui, che aveva denunciato lo strapotere dei media in Fahrenheit 451, pubblicato a puntate su un coraggiosissimo «Playboy» nel 1953, in pieno maccartismo. E al diavolo anche gli intellettualismi, le ricercatezze dei critici newyorkesi, l’engagement e i sofismi: una storia sta in piedi oppure no. Il resto è speculazione. Non si scrive né per denaro, né per il mercato. E nemmeno per ossequiare il pubblico e le maggioranze. Ne va della propria autenticità. Bisognerebbe impedire agli scrittori di frequentare le scuole di scrittura creativa, così come le accademie: non fanno che riempire la testa di cliché. Ma il nostro Bradbury non era meno critico e intransigente nei confronti delle minoranze, di cui aveva denunciato le derive censorie (che si sarebbero tradotte nel politicamente corretto imperante), specie quando le femministe del Vassar College gli chiesero d’inserire più personaggi femminili nelle Cronache marziane. Cosa che lo fece andare su tutte le furie.
Alla dittatura delle maggioranze e delle minoranze, che vorrebbero tappare la bocca agli scrittori, rispondeva con una sola parola: autenticità. Quell’autenticità che gli ha permesso di cimentarsi in centinaia di racconti, ognuno dei quali apre e chiude un mondo, affrontando liberamente generi letterari che spaziano dalla fantascienza alla narrazione realistica, dall’horror al poliziesco e così via. Autentiche uscite di sicurezza dalla realtà in cui viviamo, viaggi andata e ritorno dall’Altrove. Basti pensare alle Martian Chronicles, tra i suoi libri più aurei, che farebbero venire a chiunque – è accaduto anche allo scrivente – la voglia di abbandonare la Terra in cerca di nuove avventure. È la nostra natura a spingerci a farlo, suggerisce Bradbury, una natura mediana, tra l’umano e il divino: una scintilla che c’impone di trascendere i nostri limiti nello spazio, la nostra più autentica frontiera interiore… Ecco perché vedeva nella fantascienza la letteratura del futuro. Una narrativa d’idee rinchiuse nell’acciaio, una nuova simbolica, in cui l’uomo si rispecchia negli abissi siderali, incontrando un’alterità che ha già in se stesso. Siamo noi i Marziani, in fin dei conti… Lo siamo sempre stati.
Siamo noi i marziani è un’antologia di interviste allo scrittore, uscita per Edizioni Bietti nel 2014 a cura di Gianfranco de Turris e Tania di Bernardo. In quei lunghi colloqui – il nostro era un gran chiacchierone, e nel corso della vita ha rilasciato centinaia d’interviste – parla di tutto e di più, della sua narrativa e formazione, di attualità e politica. Ma non mancano nemmeno incursioni nell’infanzia. E forse l’episodio narrato al «Paris Review» nel 2010 è il miglior modo per ricordarne la figura, a cinque anni dalla sua morte. Anche perché è l’evento che segna l’ingresso del giovanissimo Ray nel mondo della scrittura.
In conclusione della lunga intervista rilasciata a Sam Weller, il discorso finisce sul singolare Mr. Electrico, un personaggio dei racconti bradburiani. «Era un uomo in carne e ossa» rettifica subito l’allora novantenne scrittore. I due si erano incontrati nel lontano autunno del 1932: come ogni anno, la vita della tranquilla cittadina in cui viveva era stata sconvolta dall’arrivo del Dill Brothers Combined Shows. Con grande gioia di Ray, su cui il fascino misterioso dei circhi esercitava un profondo ascendente. A colpire l’attenzione del giovane è un uomo: si fa chiamare Mr. Electrico, nei suoi spettacoli si accomoda su una sedia elettrica improvvisata e viene attraversato da migliaia di volt.
È l’autunno del 1932, si diceva. Il dodicenne ha appena perso uno degli zii cui è maggiormente legato. Al ritorno dal funerale, si accorge che il circo è approdato sulle coste del lago Michigan. È allora che intima a suo padre: «Ferma la macchina». Tra lo sbigottimento generale, aggiunge candidamente: «Devo scendere». Suo padre è furioso. Vorrebbe osservasse il giorno di lutto, ma lui è irremovibile. Si lancia lungo il pendio della collina, in direzione del circo. «Sebbene allora non me ne rendessi conto, stavo scappando dalla morte. Correvo verso la vita» ricorderà più di settant’anni dopo. E incontra Mr. Electrico, fuori da un tendone. Si cimenta in un piccolo gioco di prestigio che tiene sempre in tasca, e lo stregone dell’elettricità ricambia invitandolo nel padiglione, per fargli conoscere alcuni dei bizzarri personaggi del circo; un uomo interamente tatuato (che vent’anni dopo darà il nome all’antologia The illustrated man), la donna-cannone, il nano e lo scheletro: tutti futuri personaggi dei suoi racconti e romanzi. A guidarlo in questo mondo di meraviglie è sempre lui: «Era un uomo straordinario» racconta Bradbury, «perché sapeva di avere di fronte uno strano ragazzino di dodici anni che voleva sapere un sacco di cose. Passeggiammo sulle rive del lago Michigan e mi trattò come un adulto. Gli esposi le mie grandi idee filosofiche, e lui mi raccontò le sue, più modeste». Ma il meglio deve ancora venire.
Usciti dal tendone, i due si siedono sulla cima di una delle colline che declinano verso il lago. Questa volta è l’adulto a rompere il silenzio, con parole sorprendenti: «Sono felice tu sia tornato nella mia vita». Il bambino è sbigottito, non riesce ad afferrare il punto. E il suo interlocutore continua, perentorio: «Eri il mio migliore amico a Parigi, nel 1918. Sei rimasto ferito sulle Ardenne e lì sei morto, tra le mie braccia. Sono felice tu sia tornato nel mondo. Hai un altro volto, un altro nome, ma l’anima che brilla sul tuo viso è la stessa del mio amico. Bentornato, dunque».
Anche a distanza di sei decenni, Bradbury non saprà quale significato attribuire a queste parole. Forse Mr. Electrico si era reso conto dell’intensità con cui viveva quel precoce ragazzino: un’intensità che non avrebbe mai abbandonato, fino all’ultimo dei suoi giorni. O forse il mago dell’elettricità aveva solo un dolore da espiare – e l’agonia di un uomo può durare un’eternità. Poco importa, ad ogni modo. È sempre Bradbury a raccontarci quel che accadde in seguito: «Mi fermai accanto alla giostra e piansi. Le lacrime mi rigavano le guance. Sapevo che mi era capitato qualcosa di fondamentale. Sentivo di essere cambiato. Mi aveva donato l’immortalità, un dono mistico. La mia vita fu completamente trasformata. Tornai a casa e, nel giro di pochi giorni, iniziai a scrivere. Da allora non smisi più».
Una delle carriere più brillanti del Novecento inizia in questo modo: le rive autunnali di un lago e un bambino che decide di portare il fuoco sacro della sua infanzia nel mondo adulto, di modo che trasfiguri il mondo, le cose e le persone. Quel sacro fuoco che lo condurrà in Irlanda, con John Huston, a girare Moby Dick, che animerà i suoi incontri e collaborazioni con giganti come Aldous Huxley e Walt Disney, che lo porterà su Marte e poi sulla Terra, nel passato e nel futuro. Di tutto ciò non c’è traccia in quel lontano 1932, e nondimeno quel pomeriggio assolato reca l’orma di un destino profondo e potente, che produrrà frutti straordinari.
Quella sera, il futuro poeta della fantascienza torna al luna park, in cerca del suo amico. Che si sta esibendo. A un certo punto si avvicina al pubblico, sfiorando bambini e adulti con una bacchetta sfrigolante di elettroni. «Quando arrivò il mio turno, mi toccò sulla fronte, poi sul naso e sul mento, sussurrandomi: “Vivi per sempre”. Decisi di dargli ascolto.»