Il futurismo esoterico dei cosmisti russi
Più che un territorio, la Russia è una visione del mondo, la corrispondenza formulata da Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev tra geografia fisica e geografia spirituale, la vittoria dell’immensità, della vaghezza e dell’imponenza, Giano bifronte tra un paganesimo dionisiaco e l’ortodossia. La Russia è un mistero custodito nei monasteri e nei deserti notturni, è l’enigma stesso di questa congiunzione, che si riverbera a livello antropologico così come politico-sociale. Da un lato, scriveva Berdjaev, «dispotismo e ipertrofia dello Stato, dall’altro anarchismo e sregolatezza; da una parte crudeltà e inclinazione alla violenza, dall’altra benevolenza e umanità; da una parte individualismo e consapevolezza elevata della personalità, dall’altra collettivismo impersonale; da un lato nazionalismo ed elogio dell’individuo, dall’altra universalismo e ideale dell’uomo universale; da una parte spirito religioso escatologico e messianico, dall’altra una devozione che si esprime nell’esteriorità; da un lato la ricerca di Dio, dall’altro un ateismo militante; da un lato schiavitù, dall’altro rivolta». Ad ogni modo, conclude il filosofo, «la Russia non è mai stata borghese».
Fu da una geografia spirituale di questo tipo che nacquero i protagonisti di questa storia, poco conosciuta in Italia. A loro è dedicato il volume di George M. Young appena uscito per Tre Editori nella traduzione – magistrale – di Alessandro Zabini. I cosmisti russi è dedicato ai vari esponenti (eterogenei in maniera disarmante) di una temperie culturale unica nel suo genere. Qualche esempio: «Nikolaj Fëdorov, bibliotecario eccentrico e pensatore religioso; Vladimir Solov’ëv, poeta mistico e filosofo idealista; Nikolaj Umov, fisico e conferenziere leggendario; Konstantin Ciolkovskij, pioniere del volo spaziale e scrittore teosofico; Vladimir Vernadskij, geochimico». E poi Florenskij e Berdjaev, filosofi e mistici, cosmonauti e asceti, dagli esponenti della filosofia russa ottocentesca all’élite degli scienziati sovietici.
A unirli è il cosmismo, un atteggiamento più che una corrente vera e propria, un crocevia di esperienze e ricerche che spaziano dal futurismo esoterico al pragmatismo trascendentale, dal realismo magico al materialismo idealistico, dall’umanesimo al transumanesimo. Ossimori, si dirà. Ma solo per noi: il cosmismo è il miracolo di una sintesi che l’Occidente conobbe per l’ultima volta nel Rinascimento (successivamente fu resuscitata da personalità isolate, le cui vite attendono ancora di essere raccolte in un’unica enciclopedia del realismo magico) ma che in Russia ha fatto scuola per più di due secoli, continuando a ossessionare i contemporanei. I cosmisti non sono realtà di ieri ma esistono tutt’ora, costituendo forse il miglior distillato dello spirito russo, un antidoto eurasiatico all’occidentalizzazione mondiale e alla colonizzazione atlantista delle coscienze.
«Dio divenne uomo affinché l’uomo potesse diventare Dio» recita un antico adagio: è forse la quintessenza della prospettiva cosmista. Superomismo allo stato puro, ma anzitutto superomismo magico. È l’idea che la materia non possa prescindere dallo spirito e viceversa: se il progresso prescinde dallo sviluppo spirituale conduce a disastri, laddove la sola spiritualità svincolata da elementi pratici genera un’alienazione senza pari. Realismo e magia, tecnica ed esoterismo, insomma: il cosmismo fu il tentativo archeofuturista di riunire gli opposti, in vista dell’ampliamento dei confini dell’essere umano, fino alle stelle.
Un tentativo all’insegna della pratica. Se la modernità ha coltivato un divario incolmabile tra teoria e pratica, scienze dello spirito e scienze della materia, nel pensiero cosmista la portata di ogni scoperta è misurata dalla trasformazione – non solo materiale, ovviamente – che è in grado di propiziare. Ogni -logia deve diventare -urgia, ogni disciplina astratta una via di liberazione, secondo un’ottica totale che prescrive la mobilitazione di tutte le discipline, dalla tecnica all’arte, per realizzare la trasmutazione del Sé un tempo tentata dall’esoterismo operativo. Basilare (come ovunque nell’esoterismo occidentale, secondo la celebre tesi di Antoine Faivre) è la connessione analogica tra alto e basso, microcosmo e macrocosmo. Conoscendo i legami simpatetici che legano ogni ente al tutto è possibile manipolare la natura (vincolarla, come scrisse Giordano Bruno nel De vinculis in genere), trasformando l’operatore in più-che-uomo.
Solo così ha luogo l’espansione integrale cui è chiamata l’umanità. Un’espansione materiale, nelle profondità del cosmo, e spirituale, vale a dire la costruzione ermetica della propria personalità. A differenza dell’individuo moderno, chiuso in sé stesso, l’uomo cosmista si trascende: individualmente, riunendo tutte le proprie antinomie interiori; socialmente, coltivando quelle relazioni, verticali e orizzontali, che vanno a costituire il tessuto sociale, smembrato dall’individualismo e dall’utilitarismo capitalista; cosmicamente, infine, ricongiungendosi con l’universo, operando una profonda rivoluzione copernicana nelle coscienze (ragion per cui la cosmonautica sarà naturale sviluppo del pensiero cosmista). Se la nostra, come diceva J. R. R. Tolkien, è «un’era di mezzi migliori per fini peggiori», allora occorre solamente mutare mentalità, ricalibrare il tiro, restituendoci al cosmo e realizzando così la nostra più intima essenza.
Capostipite ideale di questa scuola fu Nikolaj Fëdorovič Fëdorov (1829-1903), che visse immerso nell’ossessione della morte, nella totale incapacità di comprendere come la vita dovesse finire. Dedicò tutte le sue energie a ideare procedimenti per sconfiggerla, fino a postulare addirittura la resurrezione dei morti come compito più elevato dell’umanità nuova. La resurrezione, nelle sue pagine, cessò così di essere un dogma per diventare un problema scientifico, dal fondo tuttavia spirituale: se il cosmo soggiace alla decomposizione organica, scrisse Fëdorov, spetta a noi agire in senso contrario, realizzando così la nostra natura divina. Solve et coagula. Un compito che dovrebbe ricongiungere Paesi ed eserciti, uniti contro la natura, madre spietata.
«La resurrezione» scrisse nella Filosofia dell’Opera comune, il suo capolavoro, «sarà opera non di un miracolo, ma di conoscenza e lavoro comune. Quel giorno atteso, quel giorno bramato nel corso delle ère, sarà l’ordine di Dio e l’adempimento dell’uomo.»
Una missione universale non basata su idee democratiche né su ipotetiche Società delle Nazioni ma condotta sotto l’egida di un autocrate ortodosso russo, rappresentante di una religione la cui indiscussa superiorità deriverebbe dalla centralità della resurrezione in essa. Ma se il cristianesimo ortodosso colloca la risurrezione alla fine della storia, per Fëdorov essa è possibile qui e ora. Si realizza così il paradiso sulla terra – idea che in forma secolarizzata avrebbe caratterizzato il successivo marxismo, come messo a fuoco da una certa eretica filosofia della storia, e che spinse il filosofo Adriano Tilgher a scrivere: «Non si capisce nulla del pensiero di Marx se non lo si vede come una sintesi di natura essenzialmente religiosa e messianica».
Ma Nikolaj Fëdorovič Fëdorov, sopra ogni cosa, compì lo sforzo titanico di riunire scienza e spiritualità, azione e contemplazione. I suoi successori si sarebbero fatti portavoce di una delle due istanze, declinandosi in cosmisti “religiosi” e “scientifici”, ma lui fu entrambe le cose. Quando Dostoevskij scoprì le sue idee, gli scrisse: «Permettetemi di dire che in sostanza sono completamente d’accordo. Le ho lette come se fossero mie». E le inserì nei Fratelli Karamazov, capolavoro del gigantismo russo di cui sopra. È su uno sfondo cosmista che si stagliano personaggi come il Raskol’nikov di Delitto e castigo e i Karamazov, maestri del nietzschiano nichilismo attivo, titani e orfani di Dio sempre in procinto di crollare, avanguardie di un’umanità futura. Fu Dostoevskij stesso a parlare di Fëdorov a Solov’ëv, il quale si disse in linea con le idee del maestro cosmista. Idem per Tolstoj, che dichiarò: «Se non avessi la mia stessa dottrina, diverrei seguace di quella di Nikolaj Fëdorovič». Una simpatia, tuttavia, null’affatto corrisposta. Una volta, in biblioteca, vedendo i volumi ammassati Tolstoj esclamò: «Bisognerebbe bruciarli tutti!». Stizzito, Nikolaj gli afferrò la testa e sbraitò: «Ho incontrato molti stupidi a questo mondo, ma mai nessuno come voi!».
Aneddotica a parte, la Filosofia dell’Opera comune (pubblicata postuma nel 1906-1913) rimane un grandioso sforzo di sintetizzare azione e contemplazione, Oriente e Occidente, Asia ed Europa, nonché esplicitazione del compito destinale russo, terzo volto di Giano da un punto di vista geopolitico e spirituale. Lo zar avrebbe ricoperto il ruolo, assegnatogli divinamente, di padre di tutti i popoli; Mosca sarebbe diventata la Terza – e ultima – Roma.
Dal passato al presente, insomma, andata e ritorno. A questa diade Nikolaj aggiunse il futuro. Ma senza indulgere in nessun modo ai dogmi del progressismo ottocentesco:
«Se la stagnazione è morte e la regressione non è paradiso, il progresso è un autentico inferno.»
E questo perché il reale progresso è quello che unisce il lato destro e il lato sinistro del sapere, uomo e universo, micro e macro. Nulla a che vedere con il progresso materialista, il quale non può attagliarsi alla complessità dell’uomo, che appartiene simultaneamente a diversi piani dell’essere ed è l’attore principale dell’evoluzione attiva, principio che prescrive la partecipazione al destino del cosmo, nella persuasione che la razza umana non costituisca l’apice dell’evoluzione ma che, al contrario, si situi su un asse che è nostro compito percorrere, ascendendo.
Lo stesso asse su cui si colloca la fusione di razionalità e misticismo che è l’apice della realizzazione umana secondo Vladimir Sergeevič Solov’ëv, cosmista diurno e notturno che tentò di trasformare le idee di Fëdorov in un compiuto sistema metafisico. Una realizzazione ultra-umana, che abbraccia la religiosità senza esaurirvisi e trasforma l’uomo e il mondo, inaugurando una nuova era terrestre. Questa sintesi ultima è basata sulla «attività congiunta della vita e dell’umanità per la trasformazione di quest’ultima da carnale, o naturale, a spirituale e divina. Nella sua intera struttura, il mondo riunito sarà una immagine completa, verosimigliante del Dio Trino». Scopo ultimo del rinnovamento è l’unione con il Cristo immortale, qui inteso come l’uomo trascendentale di cui ha parlato René Guénon, che commuta tutte le proprie potenzialità in attualità, situandosi al centro della croce, o l’uomo eterno a cui Jacques Bergier e Louis Pauwels hanno dedicato l’omonimo studio.
Allo zenit spirituale del cosmismo brilla la stella di Pavel Aleksandrovič Florenskij, il «Leonardo russo», ambizioso fautore, come scrive George M. Young, di «una visione globale del mondo che conciliasse scienza, religione e arte, ragione e fede, tradizione ortodossa e taumaturgia avveniristica». Florenskij amava la matematica, con cui si sarebbe potuta costituire una nuova mistica all’altezza dei tempi. Arruolato in vari progetti sovietici, rimase fino alla fine dei suoi giorni innamorato del Medioevo russo. Era affascinato in particolare dalle icone («teologia illustrata», nella magnifica definizione del principe Eugene Trubetskoy), che vedeva come portali spalancati sull’Altrove, modelli appartenenti alla realtà divina e a quella umana, mezzi per la verticalizzazione dell’esistenza, per la trasfigurazione della carne in spirito. Ma lui stesso era vivente finestra tra due mondi. Se Philip K. Dick aveva dichiarato di possedere un alter ego vissuto ai tempi di San Paolo, Florenskij ne aveva due o tre, in giro per la storia e i piani dell’essere. Un uomo irriducibile a un solo piano della realtà, che partecipò a varie iniziative sovietiche, come già detto, mantenendo al contempo un perenne distacco interiore:
«Sembrava osservare il bolscevismo da un’altezza mistica, come fosse una fase necessaria del progetto.»
Una fase che un bel giorno decise di fare a meno di lui, giustiziandolo nei pressi di Leningrado l’8 dicembre 1937.
Affine a Florenskij, un altro gigante del pensiero cosmista fu il travagliato Berdjaev, che rinnegò il proprio retaggio aristocratico per diventare marxista, rifiutò il marxismo per diventare cristiano e smise di essere cristiano per «abbracciare una futura vita cristiana attiva basata sulla libertà e sulla facoltà creatrice». In lui l’Homo mysticus ebbe la meglio sull’Homo religiosus, come scrive Young. Fu tra l’altro lui a dividere la storia umana in tre epoche: della Legge (Vecchio Testamento), della Redenzione (Nuovo Testamento) e una terza che avrebbe realizzato le premesse delle precedenti. Una tripartizione molto antica, in realtà, ma che in Berdjaev assume tratti specifici. È infatti l’ultima epoca che vedrà il trionfo della facoltà creatrice. Una facoltà ben diversa da quella che pervade ovunque la mentalità moderna, preda di pruriti ideologici e di un’ossessione dell’autorialità senza pari. Irriducibile a ogni categorizzazione estetica, letteraria o materiale, l’atto creativo è anzitutto ontologico:
«Creerà nuovi esseri anziché valori culturali, continuerà la creazione, rivelerà l’aspetto della natura umana al Creatore. La letteratura sarà di nuovo essere. L’arte sarà trasformata in teurgia, la filosofia in teosofia, la società in teocrazia.»
Questa la facoltà che restituirà all’uomo la propria grandezza, perduta quando l’Eternità decise di tuffarsi nella Storia. È una soteriologia immanente al processo storico e non relegata alla fine dei tempi. Un’escatologia realizzabile qui e ora.
Dopo la morte di Fëdorov, furono tre le generazioni d’intellettuali che scelsero di raccoglierne il testimone: la prima agli inizi del XX secolo; la seconda nei primi anni Venti; infine, una terza dopo gli anni Ottanta, tutt’ora attiva. Come già accennato, vi furono cosmisti “religiosi” e “scientifici”. In epoca sovietica i primi ebbero un rapporto difficile con il potere. Molti furono imbarcati sulla cosiddetta “nave dei filosofi”, che nel 1922 li esiliò permanentemente, altri scelsero di rimanere e furono perseguitati, censurati o liquidati tout court. Se i cosmisti “religiosi” dovettero attendere il disfacimento dell’Urss per riemergere, i cosmisti “scientifici” non furono invece riconosciuti come “nemici del popolo”, poiché i loro studi, in qualche modo, “funzionavano” praticamente. Anzi, si trovarono addirittura a collaborare con il potere, che d’altra parte si profuse in piroette ideologiche per negare quali fossero le radici di quelle conquiste tecniche. L’Urss, insomma, si fermò ai frutti del loro sapere, senza giungere alle radici. Le quali erano, tanto per cambiare, metafisiche.
Furono in effetti molti i cosmisti che declinarono le idee di Fëdorov nei domini delle scienze applicate.
Sergej Nikolaevič Bulgakov, ad esempio, provò a trasformare l’economia in scienza spirituale, inserendosi tra i molti economisti eretici che non sarebbe sconsigliabile rileggere oggi, nel bel mezzo del naufragio del capitale. Spregiatore del denaro (sulla scorta dello stesso Fëdorov, ossessionato dall’idea di morire con qualche spicciolo in tasca), Bulgakov propose un paradigma alternativo a marxismo e capitalismo, rei ai suoi occhi di aver spersonalizzato l’umanità. Osannato all’ombra dei due blocchi, Stella rossa e Stella bianca, il lavoro non era per lui una semplice attività pratica, ma una forza cosmogonica capace di creare mondi (una visione simile a quella di Ernst Jünger, che in molti equivocarono, tra cui Oswald Spengler e Carl Schmitt) e soprattutto rimarginare la ferita da cui ha avuto inizio la storia, emendando la cacciata dall’Eden.
Ma uno degli esempi più luminosi è certamente Konstantin Ėduardovič Ciolkovskij, padre della cosmonautica innamorato di Jules Verne e a sua volta autore di romanzi fantascientifici. Ciolkovskij realizzò un’infinità di modelli di razzi spaziali e stese importanti relazioni che contribuirono alla realizzazione dello Sputnik 1. «L’eccentrico di Kaluga, che nel percorrere in bicicletta i sentieri polverosi dei villaggi aveva progettato spedizioni interplanetarie», divenne eroe nazionale sotto l’Unione Sovietica, che si servì di lui nella stessa misura in cui lui stesso sfruttò l’Urss. Affascinato da scienza, gnosi e teosofia, oggetto di culto tra gli adepti della New Age, aveva una personalissima visione del cosmo. Un cosmo vivente e dotato d’intelligenza, secondo diverse gradazioni e gerarchie: se nelle realtà inferiori la materia ha la meglio sullo spirito, ascendendo la scala universale è lo spirito a orientarla. All’apice, lo spirito fuoriesce dalla materia, fondendosi ai raggi di energia cosmica. Ecco il retroscena magico di questo singolarissimo scienziato, volutamente taciuto dai suoi committenti: se progettò razzi spaziali era perché credeva che l’apice della realizzazione cosmica non si trovasse sulla Terra.
Per poi non parlare di Vladimir Ivanovič Vernadskij, che si pose l’arduo compito di guidare l’umanità dalla biosfera alla noosfera. Persuaso che non vi fosse contraddizione alcuna tra scienza e spiritualità, in un periodo in cui le accademie erano spesso ostaggio dell’ideologia si batté per la libertà della ricerca. E, in base ai principi della sua visione metapolitica, non ebbe alcuna difficoltà a giudicare innaturali e contro natura tanto il bolscevismo, nel suo ossequio forzato dei popoli e lo sprezzo delle persone colte, quanto il nazionalsocialismo, con la sua aberrante dottrina della razza.
Sotto il comunismo queste correnti s’inabissarono, ma solo apparentemente, come documentato da Francesco Dimitri nel suo (purtroppo introvabile) Comunismo magico. Oggi sappiamo che tutti i totalitarismi del XX secolo ebbero un retroscena esoterico. Ebbene, il comunismo non fece eccezione, si dimostrò una realtà più ambigua di quanto non apparisse in superficie, se è vero, come racconta Young, che Ejzenstejn era vicino a idee rosacrociane e dirigeva «una “cerchia gnostica” di adepti, tutti prestigiosi esponenti della cinematografia e delle arti visive sovietiche». E che, anche se «dedicò non poche delle sue energie a tentare di sradicare ogni “superstizione”, come egli stesso definiva la religione, Stalin era un uomo estremamente superstizioso secondo Dmitrij Šostakovič». Anche perché era un ex seminarista.
«Quando il materialismo impera, risorge la magia» scrisse Huysmans. Ed ecco che l’immortalismo propugnato dai cosmisti si trasforma in teurgia prometeica. Quella dei cercatori di Dio riunitisi intorno a Dmitrij Sergeevič Merežkovskij, ad esempio, ansiosi di creare un nuovo Eden sulla Terra, esploratori di discipline disparate tra cui le matematiche non euclidee e la psicologia del profondo, la fisica subatomica e la metafisica di Ouspensky, antropologia e linguistica… Una sintesi che produsse risultati inaspettati e la cui originalità attende ancora di essere studiata da un punto di vista scientifico.
È sempre la sintesi tra realismo e magia a farsi sentire in queste correnti, che giunsero a influenzare l’opera futurista-suprematista-cosmista di Aleksej Kručenych La vittoria sul Sole o il Mysterium di Skrjabin, wagneriana opera d’arte che, come racconta Young, avrebbe dovuto essere eseguita
«ai piedi dell’Himalaya, senza spettatori, esclusivamente con partecipanti, nel corso di sette giorni, in un crescendo cosmico che si sarebbe concluso con la fine del mondo e della razza umana, seguita dall’avvento di una specie sovrumana superiore.»
Sempre cosmista fu Aleksandr Bogdanov, rivale di Lenin prima della rivoluzione e autore nel 1908 del romanzo La stella rossa. Ben prima dei fascisti di Corrado Guzzanti, uno scienziato sovietico si reca su Marte, trovandovi una società utopistica, egualitaria e armoniosa. Oltre a prolifico scrittore di fantascienza, Bogdanov fu autore del monumentale Tektology, pubblicato in tre volumi che finirono per anticipare l’analisi di sistema e la cibernetica. Tutti questi autori erano convinti che la storia dell’umanità si articolasse in tre fasi successive: tellurica, limitata al nostro pianeta; solare, estesa al sistema che include la Terra; siderale, ampliata a tutto l’universo. E concepirono la sfida all’Ignoto come un processo ascendente da realizzarsi attraverso la scienza e la tecnica, ma anche la disciplina ascetica. Un messaggio di origine intimamente russa, ma provvisto di elementi universali.
Ma la galleria di ritratti de I cosmisti russi è anzitutto un inno all’immaginazione creatrice, che testimonia l’esistenza di momenti in cui il reale e il fantastico cessano di essere antitetici, convolando a nozze e generando esperienze estatiche che infrangono le barriere della nostra prigione euclidea.
«La magia non è scienza del passato. È scienza del futuro» ha scritto a ragione Colin Wilson. Parole su cui occorre meditare ripercorrendo le vicende di questi singolari autori, che videro nel materialismo e nella spiritualità due momenti da sintetizzare, realisti magici in viaggio verso un cosmo interiore. Quel cosmo che attende l’umanità futura.