Il crollo delle élite e le maschere della democrazia
Élites. Un termine che oggi sa di zolfo, sinonimo di snobismo e arroganza, evocato nel dibattito pubblico solo per squalificare l’avversario. Nondimeno – ed è uno dei paradossi del nostro tempo – oggi, come in passato, le élites esistono. Sarà dunque il caso di cominciare a familiarizzare con il concetto, magari partendo da qualcuna delle recenti pubblicazioni dedicate al tema. Quella parolina tanto odiata e vilipesa costituisce il titolo di un libro pubblicato nel 2016 da Circolo Proudhon, poi ristampato da Gog, sua metamorfosi editoriale. Il sottotitolo di Élites – che contiene scritti di Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Roberto Michels e Antonio Gramsci – è Le illusioni della democrazia. Più che un’antologia è una doccia fredda di realpolitik, se è vero – ed è vero – che «i popoli, salvo brevi intervalli di tempo, sono sempre governati da un’aristocrazia», composta dai «più forti, energici e capaci, nel bene e nel male». Tuttavia, continua Vilfredo Pareto, «le aristocrazie non durano, onde la storia umana è la storia dell’avvicendarsi di quelle aristocrazie, mentre una gente sale e l’altra cala». Tradotto: la storia altro non è che il continuo avvicendarsi di gruppi dominanti, «un cimitero di aristocrazie» che si succedono nel tempo. Quando una di esse perde presa sul reale ne subentra un’altra, che ne occupa il posto. Punto.
Un luogo comune, si dirà. Fino a un certo punto: ragionare in questi termini vuol dire negare qualsiasi finalità alla storia diversa dalla “circolazione delle élite”. La storia non procede né verso il meglio né verso il peggio, non ha ragion d’essere al di fuori di quella pattuita dalle élites di turno. Il senso della storia non è “naturale” ma è sempre deciso da qualcuno. È sempre una élite a far capolino dietro rivoluzioni e democratizzazioni, a dettare il tempo ai giri di boa della storia: e l’ambizione di questa “casta” (per usare un termine piuttosto di moda) non è filantropica o quant’altro, ma semplicemente egemonica; non mira a migliorare l’uomo, il mondo o la società, ma più semplicemente a perpetuarsi. Come scrive Lorenzo Vitelli, curatore del volume, nella sua ricca introduzione, l’obiettivo è
«garantirsi la conservazione del potere e la stabilità dei rapporti di forza in gioco. È un conformismo nei confronti delle forze che dominano il mondo. La domanda che si pongono le élites non è “cosa voglio?”, ma piuttosto, “cosa devo fare per conservare il potere?”».
Per penetrare nel tessuto sociale, tali gruppi operano mimeticamente, assorbendo i leitmotiv del tempo e facendoli coincidere con i propri. I loro membri si riciclano all’occorrenza operai o migranti, difensori dei valori “tradizionali” (sic!) o moderni, amanti di maggioranze o minoranze, servi o padroni, sempre in ossequio al qui e ora. Ma questa facoltà mimetica non esaurisce il fenomeno delle élites, le quali, nota ancora Vitelli,
«operano in bilico tra la libertà e la necessità, sono vittime e detentrici del potere, gli strumenti e i controllori, incarnano le forze vive della storia per dirigerle. E tanto più gli strumenti di esercizio diventano totalizzanti e centralizzati nelle mani di pochissimi, tanto più si allarga lo spazio di libertà delle élites».
La loro posizione è mediana: da un lato partecipano alla storia – che appunto è il gioco del loro alternarsi – dall’altro se ne vorrebbero astrarre. Ebbene, quando la seconda tendenza ha la meglio sulla prima, il secolo è pronto per un ricambio di élite.
Un’inclinazione, come ha scritto Gaetano Mosca, connaturata all’élite stessa, che per natura è dinastica, ereditaria ed entropica: «Tutte le forze politiche hanno quella qualità, che in fisica si chiama forza d’inerzia, cioè la tendenza a restare nel punto e nello stato in cui si trovano». La propensione ad accentrare il potere è insomma connaturata a ogni gruppo politico in quanto tale. Ed è una tendenza che non si esercita per via morale, filosofica, culturale e via dicendo:
«Quando vediamo in un Paese stabilita una casta ereditaria che monopolizza il potere politico, si può esser sicuri che un simile stato di diritto fu preceduto dallo stato di fatto. Prima di affermare il loro diritto esclusivo ed ereditario al potere, le famiglie o le caste potenti dovettero tenere ben saldo nelle loro mani il bastone del comando, dovettero monopolizzare assolutamente tutte le forze politiche di quell’epoca e di quel popolo in cui si affermarono».
Prima dello stato di diritto c’è sempre uno stato di fatto. Ecco svelato l’arcano: prima si prende il potere, poi lo si legittima. Prima si occupano gli scranni della società, poi si elaborano filosofie, utopie, teologie politiche e altre sciocchezze del genere. È un passaggio fondamentale, ben noto ai positivisti giuridici: ogniqualvolta sentite parlare di principi “assoluti”, diritti “inalienabili” o “naturali”, validi per tutti e per sempre, ricordatevi che essi non sono caduti dal cielo, ma sono stati formulati da qualcuno. Sono sempre figli di un certo tempo (e di un certo luogo). In sostanza, se qualcuno vi propone di aderire a ideologie universalistiche, è molto probabile che vi stia fregando. Anche i princìpi che vorrebbero essere universali sono in realtà particolari. Particolarissimi. Cinismo? È la Storia, bellezza.
E la storia dell’umanità, continua Mosca, si risolve nella lotta fra due forze, una centripeta e l’altra centrifuga: da un lato, la volontà propria agli «elementi dominatori di monopolizzare le forze politiche e trasmetterne ereditariamente il possesso», dall’altro la deriva «verso lo spostamento di queste forze e l’affermazione di forze nuove». Le vecchie élites decadono quando «non possono più esercitare le qualità per le quali arrivarono al potere, o queste perdono ogni importanza nell’ambiente sociale in cui vivono». Guai se le élites perdono forza, isolandosi dal mondo circostante e impedendone il ricambio: «Le classi superiori divengono deficienti di caratteri arditi e pugnaci e ricche di individui molli e passivi». Nascono allora fenomeni singolari, che ricordano da vicino la fase storica che stiamo vivendo: «Una specie di cultura tutta astratta e convenzionale» prende il posto «del senso della realtà e della vera ed esatta conoscenza della vita umana»; gli uomini perdono ogni forza e dilagano copiosamente buonismi,
«teorie sentimentali ed esageratamente umanitarie sulla bontà innata della specie umana, specialmente quando non è guasta dalla civiltà, e sulla preferenza assoluta da darsi, nelle arti di governo, ai mezzi dolci e persuasivi piuttosto che a quelli rigidi ed imperiosi».
Dietro a quest’umanitarismo zuccheroso e stucchevole – sovente esercitato, tra l’altro, da individui ben poco rousseauiani – si cela dunque il logorio di una élite. Nemmeno il democratismo sfugge a quest’analisi. Nell’antologia edita da Gog è Roberto Michels l’“élitista” incaricato a smascherarlo, ne La legge ferrea dell’oligarchia:
«Per fare atto di presenza in parlamento non c’è, per il ceto dei signori, che un mezzo solo: atteggiarsi a democratico nell’arena elettorale, chiamare fratelli e compagni i contadini ed i lavoratori del suolo, e cercar di persuaderli che i loro interessi economici e sociali concordano coi suoi».
Una truffa bella e buona, insomma, che vede l’aristocratico farsi simile a quel popolo che non ama, che in fondo disprezza e ha sempre disprezzato: «Tutto il suo essere reclama autorità, mantenimento di suffragi ristretti e, ove esso sia in vigore, abolizione del suffragio universale». Eppure, vedendo che lo spirito dei tempi è cambiato, si ricicla in democrat, «fa di necessità virtù ed implora la massa plebea di dargli la maggioranza. Lo spirito conservativo dell’antica casta dei signori ha bisogno d’avvilupparsi in un ampio manto dalle pieghe democratiche». Anche il sistema democratico, secondo Michels, è organizzato su base aristocratica: la tendenza all’oligarchia sembra in qualche modo connaturata allo stesso divenire storico.
Questo ci dicono, in fin dei conti, gli autori di cui abbiamo parlato: le élites non vanno demonizzate ma studiate. Per comprendere in maniera laica quel che siamo stati e quel che siamo, è meglio farci i conti. La storia è una “circolazione di élites”? Benissimo. Ma questo non toglie ci siano élites ed élites. Chiediamoci, dunque, a questo punto: di che stoffa sono le nostre? Per rispondere partiamo da un altro libro di recente (ri)pubblicazione, vale a dire La rivolta delle élite di Cristopher Lasch, scritto nel 1995 e riedito da Neri Pozza lo scorso agosto. Anche il sottotitolo è simile a quello del volumetto di Gog: Il tradimento della democrazia.
Se Pareto, Mosca e Michels setacciano la storia passata, Lasch si tuffa invece nell’attualità, offrendoci un ritratto spietato delle nostre élites. Lo fa partendo dall’arcinoto saggio di José Ortega y Gassett La ribellione delle masse (1930). Assieme agli studi di Le Bon, Canetti e Mosse, è uno dei migliori strumenti per comprendere il fenomeno – tutto moderno – della massificazione. Sennonché, scrive Lasch, a essersi ribellate non sono le masse, quanto piuttosto le élites stesse, «che controllano il flusso internazionale del denaro e dell’informazione, dirigono le fondazioni filantropiche e le istituzioni di ordini superiori, controllano gli strumenti della produzione culturale e definiscono i termini del dibattito pubblico». Ebbene, conclude Lasch, sono loro, e non i popoli, «ad aver perso la fede nei valori dell’Occidente, o in quanto ne rimane». È un tradimento a tutti gli effetti, che sottende l’isolazionismo descritto prima, preludio del crollo degli ordinamenti.
La realtà è che le élites, scrive Lasch, non sono mai state tanto distanti dai popoli come oggi. I gruppi che tengono le redini del nostro mondo globale agiscono tutti all’insegna del consumo e non della produzione, hanno una visione turistica del mondo. Quando si battono per le minoranze (le quali, secondo Lasch, a loro volta non ambiscono a un reale cambiamento ma solo a un posto al sole nello status quo, che andrebbe piuttosto rivoluzionato) lo fanno per catalogarle, brandizzarle, targettizzarle in maniera sempre più capillare. Dividono e segmentano per poi diversificare la produzione, vendendo a ciascuno la propria particolarità, la propria individualità («Tutto intorno a te», «Tu vali» sono i cinguettii del capitalismo creativo), la propria appartenenza a una minoranza. Dietro a velleità umanitarie spesso si cela una sorta di glocalizzazione (Bauman) realizzata su scala antropologica.
Queste classi superiori non sono connotate da un’ideologia specifica ma da uno stile di vita. Il loro è un intellettualismo vuoto e circonvoluto, che tradisce una mancata comprensione di quella stessa realtà che vorrebbero trasformare. A condire il tutto è un nomadismo apolide, conforme a quello del capitale, che sradica e trasferisce da un capo all’altro del mondo popoli e merci, «svuotando le democrazie», come scrisse Giano Accame in un suo famoso – e, ad oggi, purtroppo introvabile – libretto. Una visione segmentata, dimentica dell’insieme e finalizzata al perfezionamento tecnico delle parti. I membri di questa New Class (la supersocietà di cui ha parlato Aleksandr Zinov’ev) sono giovanilisti e sbarazzini, il loro rapporto col mondo è di natura ludica; sono orgogliosi, ma la loro boria è piuttosto differente dall’orgoglio delle antiche aristocrazie. È l’arroganza di una self-made élite che crede di dover tutto ai propri sforzi. Parlano utilizzando un proprio gergo, comprensibile solo agli “iniziati”, dileggiando quello “volgare”.
A caratterizzare le nuove élites è anche un peculiare rapporto con il tempo. Se la natura dinastica ed ereditaria delle aristocrazie era aperta al passato e al futuro, i membri della New Class sono incapaci di percepire il trascorrere del tempo, che tentano di esorcizzare inseguendo le mode del momento, nonché a suon di lifting e viagra. Un periodico restauro di una giovinezza ormai perduta cui fa da contraltare un “presentismo” intransigente, che incontra enormi «difficoltà a immaginare una comunità prolungata tanto nel passato quanto nel futuro e che comporti una consapevolezza degli obblighi intergenerazionali». Avulse dallo spazio (apolidia) e dal tempo (presentismo), sono loro ad aver creato quelle “zone” e “reti” tanto osannate da Robert Reich: ma queste realtà, scrive Lasch, «popolate da nomadi, mancano della continuità che deriva dal senso di appartenenza a un luogo e da standard di condotta coscientemente coltivati e trasmessi da una generazione all’altra». Insomma, stando a Lasch la tanto declamata Upper Class odierna, il conclave di quelli “che si sono fatti da sé”, si rivela essere un coacervo di modaioli à la page, avulsi da passato e presente – forever young in doppiopetto, con il moccolo al naso. Si sentono a casa propria ovunque. Cosmopoliti, si immaginano citizens of the world, «ma senza accettare nessuno degli obblighi che la cittadinanza normalmente comporta». Alla concretezza del genius loci preferiscono l’astrattezza di un mondo privo di particolarità ed asperità.
Un mondo, tuttavia, che al di sotto della patina tutta basic english e creativity pullula di particolarismi e regionalismi, comunità che al disgregarsi dello Stato nazionale scelgono altri principi di individuazione, di natura etnica, religiosa o linguistica – con effetti che sono sotto gli occhi di tutti. Due tendenze del tutto correlate, come nota lucidamente Lasch (non dimentichiamoci che il suo libro è del 1995!): «Il revival del tribalismo, a sua volta, rafforza per reazione il cosmopolitismo delle élite». Trincerate nelle loro torri d’avorio, non riescono a comprendere i cambiamenti di un mondo che semplicemente ha voltato loro le spalle.
Ma quest’alienazione dalla sfera del “pubblico” ha anche ripercussioni sulle categorie che fino a ieri hanno racchiuso lo spettro politico della modernità: «La condizione di crescente “insularità” delle élite significa che le ideologie politiche tendono a perdere i contatti con la realtà». A venir minata è l’antica contrapposizione tra destra e sinistra, la quale «ha esaurito la propria capacità di chiarire i problemi e di fornire una mappa fedele della realtà». Se tale sfaldamento è ben noto alle masse, non si può dire lo stesso per i membri delle élite: «Gli ideologi di destra e sinistra, invece di affrontare gli sviluppi politici e sociali che tendono a mettere in discussione le verità rivelate tradizionali, preferiscono scambiarsi reciproche accuse di fascismo e comunismo», negando l’ovvietà che nessuna di queste due forme rappresenti propriamente il futuro.
Ad aver descritto questo scollamento è stato il filosofo francese Alain de Benoist, “teorico delle nuove sintesi”, che nel corso della sua sterminata produzione ha fatto più volte appello alla necessità di elaborare un pensiero situato oltre la destra e la sinistra, per come tradizionalmente – e, talvolta, quasi calcisticamente – intese. Lo ha fatto anche ne Il populismo, pubblicato da Arianna lo scorso luglio con il sottotitolo programmatico La fine della destra e della sinistra. Di questo si parla, in realtà: il “fenomeno populista” viene utilizzato per sondare la fine di queste categorie politiche (aspetto approfondito da de Benoist nel corso di un’intervista apparsa su questo blog). Uno scandaglio utilissimo, se è vero che sono esistiti ed esistono populismi di destra e di sinistra, insieme ad altri che uniscono elementi “tradizionalmente” di destra e sinistra, seminando il panico tra chi ancora difende l’una o l’altra ideologia. Ebbene, anche le pagine di de Benoist si confrontano – naturalmente – con le nuove élites, verso cui i popoli cominciano ad avvertire una certa allergia. Quali sono le loro caratteristiche?
«Un’irreprensibile vocazione al nomadismo, al cambiamento perpetuo, al rifiuto delle radici, al disprezzo dei valori comunitari e popolari, alla fuga in avanti nella frenetica ricerca del profitto, a una permissività senza limiti, a una fascinazione per i “vincenti”».
Caratteristiche, d’altronde, evocate anche da Costanzo Preve (cui de Benoist ha dedicato il suo libro), che sulle colonne di «Krisis» descrisse così le fattezze della global middle class:
«La facilità di viaggiare, l’inglese turistico, l’uso moderato delle droghe, una nuova estetica androgino-transessuale, un umanesimo terzomondista, un multiculturalismo senza una vera curiosità culturale».
Cosa diventa la filosofia in mano alle nuove élites? «Una terapia psicologica di gruppo e una ginnastica di relativismo comunicazionale, il chiacchiericcio di persone semicolte».
È questo il quadro antropologico entro cui crollano i principi di destra e sinistra, tra l’altro in sincrono con la chiusura del Novecento, il “secolo delle ideologie”, che ha seppellito le dottrine della modernità sotto un cumulo di macerie – come messo a fuoco anche da Aleksandr Dugin (altro punto di riferimento e “compagno di viaggio” di de Benoist) nel suo magnifico La Quarta Teoria Politica, appena uscito in edizione italiana grazie all’impegno di NovaEuropa. Le categorie politiche che hanno infiammato il Novecento sono crollate come castelli di carte. Lo stesso dicasi dell’antica dicotomia tra conservatorismo e progressismo, categorie che raccolgono una pluralità di idee difficilmente accorpabili entro una sola definizione. D’altronde, non stiamo parlando di valori eterni, ma – come già ricordato – di concetti generati e sviluppatisi all’interno di un preciso momento storico:
«Nata dalla modernità, la divisione destra/sinistra si cancella con essa. Vi restano ancora abbarbicati soltanto coloro i quali – per ragioni di abitudine, comodità, pigrizia o interesse – non hanno compreso che il mondo è cambiato e che strumenti concettuali obsoleti non permettono di farne l’analisi».
Dopo la chiusura del “secolo breve”, è sempre più evidente l’impossibilità di affibbiare un patentino politico a idee che nel corso dei decenni sono transitate da destra a sinistra e viceversa. Il populismo è la mappatura di questa geografia ideale, che contraddice quella utilizzata da certi giornalisti: imperialismo e colonialismo, cristianesimo e laicismo, americanismo e antiamericanismo, europeismo e antieuropeismo, conservatorismo e progressismo, autoritarismo e liberalismo, fino a temi scabrosi come razzismo e antisemitismo, sfuggono completamente alla dicotomia destra/sinistra. Per poi non parlare del fatto che, secondo de Benoist, è assai ingenuo parlare di destra e sinistra al singolare, poiché queste etichette raccolgono una pluralità di orientamenti, spesso reciprocamente incompatibili, nonché legati a contesti storici e geografici differenti. Nel clima di autentica follia che ha accompagnato negli ultimi mesi la cronaca italiana, forse la sua testimonianza sarebbe risultata utile – peccato che le sue conferenze siano state sospese a seguito di proteste indignate, che hanno livellato il filosofo francese a pedina elettorale del Front National (per il quale, come lui stesso ha dichiarato, nemmeno ha mai votato, così come non ha mai incontrato Florian Philippot). Eppure, nella sua sterminata produzione legata a questi argomenti, basterebbe leggere proprio il libro di cui stiamo parlando per comprendere come i giudizi forniti dai suoi detrattori non siano di alcuna pertinenza (in particolare, il saggio La destra e il denaro, che demolisce praticamente tutte le tipologie di destra degli ultimi duecento anni!). Ma tant’è.
Spauracchi agitati da certo giornalismo culturale, destra e sinistra non sono (più), secondo de Benoist, chiavi di lettura per comprendere il nuovo che avanza. Né per affrontare le sfide del futuro. Valga come esempio l’idea stessa di capitale e progresso, secondo analisi mutuate dall’intellettuale eretico Jean-Claude Michéa:
«Alla stupidità delle persone di sinistra che ritengono possibile combattere il capitalismo in nome del “progresso” corrisponde l’imbecillità delle persone di destra, che ritengono possibile difendere al contempo i valori “tradizionali” e un’economia di mercato che non smette di distruggerli».
Modulati secondo variazioni assai differenti, i tre testi di cui abbiamo parlato puntano sempre sul nostro mondo, che sta affrontando un periodo di transizione ma rimane legato a punti di riferimento logori, a cartografie ormai superate, ad élite la cui forza propulsiva sta lentamente esaurendosi. Segni dei tempi: ad ogni modo, i giganti hanno sempre piedi d’argilla.