L.-F. Céline, eretico e profeta dell’Apocalisse
Il 1° luglio 1961 si spegneva Louis-Ferdinand Céline, maestro di stile e “medico dei poveri”, pacifista e sferzante fustigatore dell’uomo occidentale, autore di capolavori della letteratura europea e di quei pamphlet che gli avevano valso in vita l’emarginazione letteraria. Al funerale di questo disincantato testimone del Novecento – di cui conobbe, visse e a volte subì le maschere – c’erano pochissime persone. Una trentina, in tutto, tra cui Lucien Rebatet, Roger Nimier, Marcel Aymé, Robert Poulet e Claude Gallimard. È dai diari del primo che abbiamo qualche notizia su quel che accadde subito dopo la sua morte. Lucette Almanzor, compagna dello scrittore, si era ben guardata dal far girare la notizia della sua morte, nel timore che orde di giornalisti a caccia di “scandali” e “scoop” interrompessero il raccoglimento di quelle ore buie. Fu un funerale semiclandestino, scrive Rebatet, che avrebbe potuto benissimo essere inserito tra gli episodi dei romanzi di Céline. «Il feretro era stato posato nella sua camera da letto, a lato del bagno grande, aperto. Si vedevano il lavabo, gli asciugamani, e, dall’altra parte, gli stracci di Louis-Ferdinand, le sue cinque o sei canadesi sdrucite, appese le une sulle altre a un attaccapanni». Lucette avrebbe voluto far celebrare una messa (Céline, da parte sua, se ne sarebbe fregato altamente, optando per la fossa comune): peccato che il don Abbondio di stanza a Meudon, ultimo eremo dello scrittore, nei dintorni di Parigi, si fosse rifiutato di presenziare…
Le pagine appena citate dell’autore de Les Deux Étendards sono inserite in Louis Ferdinand-Céline. Un profeta dell’Apocalisse, che raccoglie un’enorme mole di documenti inediti, tasselli ideali di una biografia tanto travagliata quanto grandiosa. Lettere e interviste, scritti e testimonianze, dalle trincee della Grande Guerra alla Parigi dell’occupazione, dalla prigionia all’esilio degli ultimi anni. Un autentico viaggio nel cuore di tenebra del XX secolo. Pubblicato da Edizioni Bietti con un’introduzione di Stenio Solinas, il volume di cui stiamo parlando è curato da Andrea Lombardi, uno dei più attenti studiosi italiani di quell’immenso eretico autore di Voyage au bout de la nuit, Mort à credit e altri capolavori. Un “genio maledetto” delle Belle Lettere, insomma: un’equazione agli occhi di molti scomoda, scomodissima, come hanno ricordato le recenti polemiche scaturite in margine alla ripubblicazione dei suoi pamphlet in Francia.
D’altronde, secondo un meccanismo ormai arcinoto, quando la critica cosiddetta “ufficiale” approccia autori come Céline, di solito lo fa seguendo due tendenze: o si inchioda lo scrittore alle sue idee politiche, depennandolo dai programmi dei corsi universitari, rifiutandosi di parlarne sui giornali e nelle trasmissioni televisive, oppure lo si anestetizza, tendendo a minimizzare ciò che riesce indigesto al politicamente corretto, per renderlo presentabile – al limite, “vendibile” – al grande pubblico. Uno dei meriti di Un profeta dell’Apocalisse risiede nel mantenersi equidistante da tali approcci, opposti ma complementari, non avendo il timore di affrontare questo titano della letteratura in tutte le sue sfaccettature, letterarie e biografiche.
Louis-Ferdinand Céline era uno scrittore innamorato anzitutto dello stile. Esistenziale, come letterario. Sapeva bene che si può non solo scrivere, ma anche vincere o perdere, vivere o morire, con o senza stile. Ne aveva fatto una specie di divisa, nella persuasione che il miglior indice dello stato di salute di una cultura fosse proprio lo stile («gli artisti, antenne della civiltà» diceva Ezra Pound). Lui stesso l’aveva dichiarato nel novembre del 1960 sulle colonne di «Le Monde et la vie»: «Oggi si scopre un Balzac e trenta George Sand alla settimana. Balle! Non c’è nessuno! Il ciarlatanismo si mangerà il romanzo e la letteratura!». Altro che stile: i nuovi romanzieri sono solamente ottimi pubblicitari, venditori porta a porta del loro piccolo io. «Il Goncourt è il peggior romanzo dell’anno. Presto si daranno ai romanzi d’appendice. I giovani scrittori sono pederasti e sentenziosi. Il fatto è che il loro stile non è divertente. Ma per chi fa dello stile, non c’è pubblico!». Se è vero che la ricerca dello stile non smuove più folle oceaniche, non sarà nemmeno il falso immoralismo straccione dilagante a salvare le sorti della letteratura, né della civiltà. C’è immoralismo e immoralismo, d’altronde, ma questa è un’altra storia…
Sempre di stile aveva parlato, tre anni prima, con Madeleine Chapsal, nel corso di un’intervista uscita su «L’Express» il 14 giugno 1957. È uno dei colloqui più amari tra quelli contenuti nel volume curato da Lombardi, e allo stesso tempo un autentico toccasana, una medicina che di tanto in tanto andrebbe somministrata agli ego ipertrofici di certi scrittori di oggi. A un certo punto, la giovane intervistatrice chiede a Céline di condensare in poche parole ciò che ha inventato. Ecco la risposta di Céline:
«Una musica, una musichetta calata nello stile e basta. Tutto qui. La trama, diobono, è una roba secondaria. È lo stile che conta. La vita m’ha voluto mettere in circostanze, in situazioni delicate. Allora ho tentato di tradurle alla buona, ho dovuto farmi memorialista. E in un tono che mi pare differente dagli altri, perché proprio non mi riesce di fare uguale a loro… Tutti ’sti signori, che si credono tanto differenti, non lo sono per niente. È piena l’Enciclopedia, di quest’altri! Ci ho il Dizionario, io, enorme, sono tutti lì dentro. Me li scovo…».
L’intervistatrice, ovviamente, non perde l’occasione e vuole insistere a tutti i costi sulle scelte ideologiche del suo interlocutore, il suo aver scelto la “parte sbagliata”. E lui sbotta:
«Idiota d’un idiota, andarmi a ficcare in una faccenda simile, quando potevo fare come tanti altri!… È quel che mi diceva Marion: “Se si fosse buttato a sinistra, oggi avrebbe un piano intero all’Excelsior”. E citava Barbusse; quando arrivava a Mosca, gli dicevano d’accomodarsi al piano di sopra, a quello di sopra ancora… E io, diobono, stavo nelle latrine a Sigmaringen, io, nella merda fino al collo, una roba schifosa… Creperò nell’ignominia, nel disonore, nella povertà, per pura scemenza…».
La stessa amara consapevolezza, d’altronde, Céline l’aveva manifestata allo stesso Rebatet, mentre decenni prima si trovavano a passeggiare assieme nei dintorni di Sigmaringen, sede del governo di Vichy e di Phillipe Pétain, dove Céline sarebbe rimasto fino al marzo del 1945. Fosse restato a Parigi, l’avrebbero sicuramente ammazzato… Nella colonia francese, ogni tanto, si sfogava con il suo amico. In assenza di testimoni, ovviamente: Céline non era uno da costruirsi la carriera sui propri fallimenti. Ma, di tanto in tanto, la verità saltava fuori: «Ti rendi conto? Se non mi fossi infervorato a voler proferire delle verità… La grana che mi sarei fatto… Il grande scrittore mondiale della “sinistrorsa”… Il cantore dell’umana sofferenza. Dell’assurda coglioneria… Senza aver nulla da imbellettare. Tutto nello sbellicamento, Bardamu, Guignol, Rigodon… Premio Nobel… Le misere palate di merda animale che sarebbero Aragon, Malraux, Hemingway, dopo Céline… Ah!, dimmi dunque, dove non sarei mai arrivato… “Ma-estro”… II Nobel… Miliardario… II Grande Scaracchio… Dottore honoris causa…».
Torniamo un’ultima volta nel 1961, al funerale di Céline, sempre in compagnia di Lucien Rebatet. Dalla casa in cui riposa la salma dello scrittore, il gruppetto di amici si muove direttamente verso il cimitero di Vieux-Meudon. «Proprio in quell’istante si è messa a cadere una pioggerella sottile, come fosse un’illustrazione di Morte a credito. Fu veramente stupefacente: appena usciti dal cimitero, il sole riapparve sulla banlieue». Il più grande scrittore francese del XX secolo veniva seppellito così, «clandestinamente, da un pugno di amici, più miseramente di una lavascale». Un segno dei tempi, che però non ha offuscato la luce dell’astro di Louis-Ferdinand Céline, che continua a splendere, a distanza di oltre mezzo secolo, gettando un greve baluginio sulla miseria letteraria e umana del nostro presente.