Pessoa = Politica + Profezia
«Il più pericoloso (o il meno estetico) dei divertimenti inutili»: così, con una battuta lapidaria, Fernando Pessoa liquidò la politica, quella politicante, per capirci, ma avrebbe potuto riferirsi benissimo anche a quella culturale, che distribuisce patentini ideologici a destra e a manca, più preoccupata di operare selezioni all’ingresso del pantheon della cosiddetta “cultura ufficiale” che indagare il senso nascosto di poeti e artisti. In Italia, nel corso dei decenni, Pessoa non è sfuggito a puntigliose “riletture” e a odiosi “distinguo”, operati da chi è incapace di cogliere l’unità dietro la frammentarietà di un carattere. Un esercizio molto utile per disintossicarsi da certe “epurazioni” è la lettura di un’antologia appena uscita per i tipi di Bietti, che raccoglie “appunti e frammenti”, come recita il sottotitolo, redatti tra il 1910 e il 1935 dal maestro dell’eteronomia, in occasione dei centotrent’anni dalla sua nascita. Stiamo parlando di Politica e profezia – curato da Brunello Natale De Cusatis, tra i maggiori lusitanisti italiani –, libro che già nel titolo raccoglie l’ascissa e l’ordinata di un’equazione personale tesa tra la contemporaneità e il mito, le origini e il futuro, lo spazio e il tempo.
Dalle sei sezioni del volume – tutte allestite, tradotte e curate da De Cusatis – emerge un Pessoa differente da quello tramandato e stereotipato che spopola da noi. Un pensatore libero e non allineato, che seguì – e con attenzione – le vicende politiche del suo tempo, facendosene interprete acuto e controcorrente. Anarca più che anarchico, neopagano e aristocratico, esteta futurista come il suo Alvaro de Campos, anticomunista e antiliberale, allergico alle rivoluzioni nonché a ogni forma d’ideologia irreggimentata e organizzata, detestava i partiti perennemente in lotta tra loro, nelle cui opposizioni vedeva un retaggio religioso, fanatici contro fanatici – anche perché il Portogallo dei primi decenni del Novecento, quello in cui visse lui, era tutta una collezione di cambi di governo e colpi di Stato, con esecutivi che duravano una manciata di giorni e altri stroncati sul nascere…
Impossibile catturarlo in una definizione, anche perché la sua era una “visione del mondo” anzitutto metapolitica, improntata alla presenza del mito e del sacro nella realtà. Potremmo definirlo un realista mitografico, che nel suo serrato confronto con la Storia vide emergere non “fatti” ma mitologie politiche e religioni secolarizzate. Per essere autenticamente realisti – sembra suggerirci Pessoa – occorre indagare il fondo metapolitico della politica, l’essenza metastorica della storia. Un esempio? La Prima guerra mondiale, uno scontro non tra Stati o popoli ma tra due principi fondamentali: se il primo pone la Patria sopra la Civiltà, l’altro afferma la superiorità della Civiltà sulla Patria. Salvo poi auspicare una sintesi ideale (metapolitica, appunto) indicando nell’opposizione tra le due istanze un effetto di superficie, che cela rapporti più profondi:
«È con la creazione di patrie forti e grandi che si crea una civiltà grande. Allo stesso modo, è con la creazione d’individui forti che si crea uno Stato forte, è con la creazione di una forte cultura che viene stabilita una forte disciplina».
Furono insomma i miti della modernità a incuriosire questo singolare politologo, che dietro a ogni ideologia vide nient’altro che una religione secolarizzata: basta comprendere quale essa sia per avere un’idea delle dinamiche sociali in atto. È un modello di “teologia politica” portato avanti da autori come Carl Schmitt, Juan Donoso Cortés e Joseph de Maistre, tra gli altri. La già citata Grande Guerra non fa eccezione. Dietro schieramenti e alleanze balugina qualcos’altro, e Pessoa non ha timore di affermarlo, parlando (con toni che oggi verrebbero definiti politicamente scorrettissimi) di un conflitto essenzialmente religioso: «Nella civiltà moderna combattono corpo a corpo, per la prima volta, in modo chiaro, le forze pagane risorgenti e le forze cristiane decadenti».
Di origine squisitamente nietzschiana e neopagana, le sue critiche al cristianesimo si saldano all’analisi – e alla critica – della modernità, nei cui fenomeni, quasi senza eccezione, risiedono tracce di “cristismo”. In primis nella Rivoluzione francese, che della modernità è in qualche modo la madrelingua, la matrice storica e ideologica. Un fenomeno del tutto cristiano, basato sui principi di libertà, ugualità e fraternità, declinati in uno strenuo (e fallimentare) tentativo di migliorare la Storia e l’uomo, realizzando una sorta di Paradiso terrestre proiettato nella storia. Sennonché, una volta calati sulla terra, i principi del cristianesimo non sempre reggono alla prova del fuoco, e spesso vengono infranti dai diretti interessati, come dimostrano le carneficine orchestrate dai partigiani di questi stessi valori. In passato dai cristiani (le cui persecuzioni nei confronti dei cosiddetti “pagani”, aggiungiamo noi, sono tra i tabù meglio custoditi dal “culturalmente corretto”), nei tempi più recenti dai sedicenti “rivoluzionari”. Errori di percorso? Applicazioni errate? Null’affatto: il malinteso è intrinseco ai principi stessi che, scrive Pessoa, «sono antagonistici all’esistenza sociale, e applicarli, realmente e davvero, vorrebbe dire distruggere la società». Ma lo stesso discorso si applica al democratismo: «Tutto il fanatismo, tutta l’intolleranza, tutta la confusione mentale, la sentimentalità morbosa dei democratici, ben mostrano la base ossessivamente religiosa del suo sistema».
Nemmeno il bolscevismo – il quale, leggiamo in Politica e profezia, dietro una patina rivoluzionaria possiede un animo reazionario come pochi altri – sfugge a quest’analisi, con tutti i suoi dogmi, che in realtà si riducono a due: il libero arbitrio, l’idea che sia l’uomo a regolare gli orologi della Storia, che sia cioè chiamato a redimere i peccati del mondo con le sue forze, senza concorso esterno, e il miracolo, secondo cui è possibile «costruire una società fuori dall’egoismo, dalla vanità, dalla cupidigia umane – fonti di tutto il progresso e di tutta la vita sociale», sospendendo così le leggi naturali. Due postulati, ancora una volta, di derivazione cristiana. Se le cose stanno così, dunque, l’opposizione tra cristianesimo e comunismo è una specie di guerra civile, una scaramuccia tutta interna al monoteismo: «L’odio feroce del bolscevismo contro il Cristianesimo è l’odio di […] una religione contro l’altra». Per poi non parlare della lotta di classe, prosecuzione delle guerre religiose con altri mezzi.
Qualcuno, soprattutto in Italia, ha ben pensato di arruolare Pessoa e la sua opera tra le fila del cosiddetto “pensiero debole”, facendo delle sue citazioni santini con cui condire vecchi e nuovi esistenzialismi. Per evitare equivoci di questo tipo, consigliamo la lettura di frammenti come questo, auspici di una riforma spirituale, prima che materiale, del Portogallo contemporaneo:
«Opera pagana, opera anti-umanitaria, opera di trascendenza ed elevazione, attraverso quella crudeltà verso noi stessi che lo spirito di Nietzsche, in un momento di lucidità, vide essere la base di tutto il sentimento dell’impero. Creare in Portogallo il sentimento di una missione civilizzatrice! […] Grande e difficile è spazzare gli ideali democratici, umanitari e utilitaristici. La grande opera anti-cristiana (anti-cristiana in tutto: anti-democratica, anti-cattolica, anti-monarchica), tuttavia, dev’essere compiuta. Poveri noi se non realizziamo la missione divina di Colui che ci situò all’Occidente dell’Europa. […] Dopo la conquista dei mari deve arrivare quella delle anime».
Di fronte alla crisi in cui versava la contemporaneità, prima di affidarsi a questa o quella formula politica – con luminose eccezioni, tuttavia – Pessoa auspicava che il Portogallo trovasse un proprio mito, una propria meta-narrazione fondante. Nazionalista mistico, era persuaso che l’animo lusitano disponesse di una carica trascendente:
«Che il Portogallo prenda coscienza di se stesso. Che rifiuti gli elementi estranei. Metta da parte Roma e la sua religione. Si affidi alla propria anima. In essa incontrerà la tradizione dei romanzi cavallereschi, dove passa, vicina o remota, la Tradizione Segreta del Cristianesimo, la Successione Super-Apostolica, la Cerca del Santo Graal. […] Buttiamo via questo fardello di Tenebre e sconforto che da secoli pesa, ora più ora meno, sulle nostre intelligenze e decisioni. Non abbiamo bisogno dei sette colli di Roma: anche qui, a Lisbona, abbiamo sette colli. Edifichiamo su questi la nostra Chiesa».
In fondo, è in queste parole che si saldano le tante anime di una vita plurale come quella di Fernando Pessoa (riprendendo il titolo della biografia scritta da Ángel Crespo e uscita in Italia sempre a cura di Brunello De Cusatis, qualche anno fa). Se è vero che tutta la modernità è intessuta di miti – anche quando li vorrebbe risolutamente negare – allora è con i miti stessi che bisogna rispondere. Miti da ricreare interiormente, per poi proiettarli al di fuori, favorendo la rinascita di una civiltà agonizzante. Che si chiamino Don Sebastiano o Quinto Impero, che i suoi alfieri siano un Bandarra o un Vieira, poco importa: l’importante è custodire quest’essenza mitografica, l’unica capace di riunire azione e contemplazione, anche nel cuore notturno della storia. Cosa che Pessoa fece, se è vero che è nella sintesi di azione e contemplazione, mito e modernità, politica e profezia, che risiede, secondo De Cusatis, l’essenza più intima di un poeta che reagì alla crisi del XX secolo edificando il suo impero interiore, sui sette colli di Lisbona carezzati dalla brezza atlantica.