Mircea Eliade: «Pauwels, Bergier e il Pianeta dei maghi»
Quando, nel 1960, le librerie furono invase dalla prima edizione de Il mattino dei maghi, i suoi due autori – Louis Pauwels e Jacques Bergier – pensarono subito di dargli un seguito, come si può leggere nelle pagine del volume, edito da Gallimard: «Noi vorremmo, se un giorno disponessimo di un po’ di denaro, procurato qua o là, creare e animare una specie di istituto in cui si proseguissero gli studi iniziati in questo libro». Così fu lanciata la rivista «Planète», poi strutturata – vuole la leggenda – da Pauwels, di ritorno da Lille, dove era andato a tenere una conferenza sul realismo fantastico. Sul treno pensò al titolo, ai contenuti e all’impaginazione. «Planète» (con le sue rubriche, tra cui Les civilisations disparues, L’histoire invisible, La vie spirituelle, Les ouvertures de la science, L’art fantastique de tous les temps, Le monde futur…) diede il via a una vague editoriale e culturale assai feconda, che diede i natali, tanto per fare un esempio, alle collane di Robert Laffront, “Les Énigmes de l’Univers”, e di J’ai Lu, “L’Aventure mystérieuse” (dedicata a: misteri della storia, civiltà scomparse, società segrete, extraterrestri, astroarcheologia, paranormale, reincarnazione e alchimia). Dedicata a scienza e mistero, passato e futuro, archeologia e fantascienza, «Planète» era una rivista poliedrica, che ospitava tutto e il contrario di tutto. Nel diciottesimo numero, ad esempio, figurava l’articolo di Jean Servier Je ne crois pas au progrès, preceduto da un editoriale di Pauwels intitolato Nous croyons au progrès! Nello stesso fascicolo, un’immagine a doppia pagina mostrava a sinistra il viso truccato di un africano e a destra, coperto da una mascherina, quello di un chirurgo. Le didascalie, «Maschera di iniziato» e «Maschera da ricercatore», erano sormontate da queste parole: «Secondo noi, il mondo moderno, che ha optato per una conoscenza di tipo esteriore, sta per riscoprire le vie che portano all’invisibile». Ecco, condensato, lo spirito che animava lo straordinario periodico.
La “prima rivista da biblioteca” conobbe tre fasi: i quarantun fascicoli della prima serie uscirono tra il novembre 1961 e il luglio-agosto 1968. Dopodiché, nel settembre-ottobre dello stesso anno, esordì «Nouveau Planète», protrattasi fino al luglio-agosto 1971 (ventitré numeri). Infine, si tentò di resuscitarla nel dicembre 1971: ne uscirono solo tre esemplari, con il nome «Planète», sotto la direzione di Serge Beucler, prima di chiudere definitivamente i battenti nell’aprile del 1972. In quegli anni, «Planète» fu lanciata anche in lingua italiana, canadese, sudamericana, olandese (tuttora attiva), spagnola e inglese, dando vita a un gran numero di iniziative collaterali, benché piuttosto indipendenti tra loro. Eccone alcune, risalenti al primo periodo (1961-1968): le itineranti “Conférences Planète”, gli “Ateliers Planète”, l’“Encyclopédie Planète” (animata dallo scrittore belga Jacques Sternberg, che dirigerà anche la rivista realistico-fantastica «Plexus»), “Présence Planète”, “Trésors spirituels de l’humanité” (diretta dal filosofo e teologo Jean Chevalier), la rivista «Pénéla» (“primo periodico femminile da biblioteca”), insieme a viaggi organizzati e addirittura campus estivi…
Una vera e propria rete, insomma, che trasformò la rivista in un fenomeno di culto, destinato a scuotere profondamente la cultura europea. Mentre i razionalisti a tutti i costi si dividevano tra sopracciglia inarcate e sguardi preoccupati, non mancò chi provò a indagare le origini del suo successo da un punto di vista differente. È il caso dello storico delle religioni – nonché prolifico autore di letteratura fantastica – Mircea Eliade, avido lettore di «Planète» e de Il mattino dei maghi, che nel suo studio Occultismo, stregoneria e mode culturali, del 1976, appena ripubblicato per i tipi di Lindau a cura di Horia Corneliu Cicortaş, si occupò della rivista, all’interno di un capitolo il cui titolo, piuttosto asciutto (Una rivista intitolata «Planète»), cela in realtà toni assai entusiastici. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo ampi estratti dedicati a Pauwels e Bergier, nonché alle loro opere e iniziative editoriali, veri e propri squarci sull’Altrove.
A. S.
Negli ultimi quattro o cinque anni Parigi è stata dominata, meglio sarebbe dire conquistata, da una rivista intitolata «Planète». Qualche tempo fa il ben noto e serissimo quotidiano parigino «Le Monde» dedicò due lunghi articoli al suo inatteso e incredibile successo; 80.000 abbonati e 100.000 lettori, per una rivista piuttosto costosa, costituiscono infatti un fenomeno unico per la Francia. Editori della rivista sono Louis Pauwels, scrittore e discepolo di Gurdjieff, e Jacques Bergier, giornalista scientifico molto popolare. Nel 1961 avevano pubblicato Il mattino dei maghi, un’opera voluminosa divenuta rapidamente un best seller. Di fatto, «Planète» è stata lanciata con i diritti d’autore del Mattino dei maghi. Il libro è una curiosa mescolanza di scienza popolare, occultismo, astrologia, fantascienza e tecniche spirituali. Ma è al tempo stesso qualcosa di più. È un libro che pretende tacitamente di rivelare innumerevoli segreti vitali, sul nostro universo, sulla Seconda guerra mondiale, sulle civiltà perdute, sull’ossessiva passione di Hitler per l’astrologia, e così via. Entrambi gli autori si leggono bene; e Jacques Bergier, come ho detto, ha una base scientifica. Il lettore, di conseguenza, è convinto che gli vengano forniti dei fatti, o per lo meno delle ipotesi responsabili; è convinto di non essere, comunque, turlupinato. «Planète» è fatta con criteri analoghi e segue un analogo modello: vi si possono trovare articoli sulle probabilità di vita sui pianeti, sulle nuove forme di guerra psicologica, sulle prospettive dell’amor moderne, su H. P. Lovecraft e la science fiction americana, sulle «reali» chiavi interpretative di Teilhard de Chardin, sui misteri del mondo animale, e così via.
Ora, non si può comprendere l’inaspettato successo del libro e della rivista, se non ci si richiama all’ambiente culturale francese degli ultimi anni Cinquanta. Com’è noto, l’esistenzialismo divenne molto popolare subito dopo la Liberazione. J. P. Sartre, Camus, Simone de Beauvoir erano le guide e i modelli a cui s’ispirava la nuova generazione. Sartre, in particolare, godeva di una popolarità che, dai tempi di Voltaire e Diderot, di Victor Hugo e Zola durante l’affare Dreyfus, nessun scrittore francese aveva più raggiunto. Il marxismo stesso era divenuto un’attrazione reale per i giovani intellettuali solo dopo che Sartre aveva dichiarato le sue simpatie per il comunismo. L’ambiente culturale – dalla filosofia e dall’ideologia politica alla letteratura, all’arte, al cinema e al giornalismo – era dominato da poche idee e da numerosi stereotipi: assurdità dell’esistenza umana, alienazione, impegno, situazione, momento storico, e così via. È vero che Sartre parlava continuamente di libertà, ma questa libertà, in definitiva, era priva di senso. Negli ultimi anni Cinquanta la guerra di Algeria aveva indotto un profondo malessere tra gli intellettuali. Esistenzialisti, marxisti o cattolici liberali dovevano prendere decisioni personali. Per molti anni l’intellettuale francese è stato costretto a vivere quasi esclusivamente nel suo «momento storico», come secondo l’insegnamento di Sartre ogni individuo responsabile è tenuto a fare.
In quest’atmosfera tetra, tediosa e in un certo senso provinciale, la comparsa di «Planète» fece l’effetto d’un fulmine a ciel sereno. L’orientamento generale, i problemi discussi, il linguaggio, tutto era diverso. Al posto dell’eccessiva preoccupazione per la propria «situazione» esistenziale e il proprio «impegno» storico, c’era una grandiosa apertura. Ci si affacciava su un mondo meraviglioso, sulla futura organizzazione del pianeta, sulle sconfinate possibilità dell’uomo, sul misterioso universo nel quale siamo sul punto di entrare, e così via. Non era l’approccio scientifico come tale a suscitare questo entusiasmo collettivo, ma l’impatto carismatico del «recente sviluppo scientifico» e la proclamazione dei suoi imminenti trionfi. Vero è che la scienza si associava con l’occultismo, con la fantascienza e con le notizie politiche e culturali. Ma la tonificante novità, per il lettore francese, era la visione ottimistica e olistica che abbinava scienza ed esoterismo; che presentava un cosmo vivente, affascinante e misterioso, in cui la vita umana riacquistava senso e prometteva un’illimitata perfettibilità. L’uomo non era più condannato a una alquanto squallida condition humaine; anzi, era chiamato sia a conquistare il suo universo fisico che a sbrogliare gli altri, gli universi enigmatici rivelati dagli occultisti e dagli gnostici. Ma, contrariamente a tutte le scuole gnostiche e a tutti i movimenti esoterici precedenti, «Planète» non trascurava i problemi sociali e politici del mondo contemporaneo. «Planète», insomma, divulgava una scienza salvifica: un’informazione scientifica che era al tempo stesso soteriologica. L’uomo non era più alienato e inutile in un mondo assurdo, in cui era capitato accidentalmente e senza uno scopo.
I lettori di «Planète» sono stanchi di esistenzialismo e marxismo, stanchi del continuo parlare di storia, di condizione storica, di momento storico, di impegno, e così via. Non si interessano tanto di storia, quanto di natura e di vita. La loro è una specie di mitologia della materia. Il fatto che centinaia di migliaia d’intellettuali europei leggano con entusiasmo «Planète» ha per lo storico delle religioni un significato diverso da quello che può avere per il sociologo della cultura. Sarebbe per noi troppo semplice dire che il terrore della storia si è fatto nuovamente insopportabile e che gli intellettuali europei che non possono trovare rifugio nel nihilismo né sollievo nel marxismo, guardano con speranza a un mondo carismatico nuovo, nuovo perché frutto di un approccio scientifico. Non possiamo certo ridurre il significato di queste mode alla ben nota tensione tra «cosmo e storia».
Il cosmo presentato da «Planète», in quanto cosmo compreso dalla scienza, coinvolto in un processo di conquista e di trasformazione da parte della tecnologia, è esso stesso un prodotto della storia. Nuovo e specifico è, tuttavia, l’interesse quasi religioso per la struttura e i valori di questo mondo naturale, di questa sostanza cosmica così brillantemente esplorata dalla scienza e trasformata dalla tecnologia. L’antistoricismo non è un rifiuto della storia come tale; è piuttosto una protesta contro il pessimismo e il nihilismo di alcuni recenti storicisti. Sospettiamo in esse perfino una nostalgia per ciò che possiamo chiamare una macrostoria: una storia planetaria e, successivamente, cosmica. Ma, comunque si consideri questa nostalgia per una più comprensiva concezione della storia, una cosa resta certa: gli entusiasti di «Planète», quando si trovano di fronte agli oggetti naturali non provano la nausée sartriana; non si sentono essi stessi de trop a questo mondo; in una parola: non vivono la loro situazione nel cosmo come la vive un esistenzialista. La popolarità di «Planète» ci rivela qualcosa degli inconsci e semiconsci desideri e nostalgie dell’uomo occidentale contemporaneo. Questo fascino dei mondi elementari della materia tradisce, in chi lo subisce, il desiderio di liberarsi dal peso di forme morte, la nostalgia di un mondo aurorale in cui immergersi.