Oggi volevo parlare della splendida puntata di ieri sera di Presa diretta, dove si è parlato (soprattutto) della difficoltà dello Stato a far fruttare i beni sequestrati alla mafia. Anche perché (è solo una coincidenza?) la scorsa notte un incendio è divampato all’interno del Caffè de Paris di via Veneto a Roma.

Pochi danni, per fortuna, ma al peggio non c’è fine. La struttura simbolo della Dolce vita romana era finita al centro di un’inchiesta su riciclaggio di denaro di cosche della ’ndrangheta calabrese (era in mano alla famiglia Alvaro) ed è da allora sotto amministrazione giudiziaria. Come vanno le cose lì? Male, malissimo.

La notizia è che la puzza di bruciato si sente ancora. Il locale infatti si appresta a chiudere il battenti. Ad Aldo Berti, il titolare della società che gestisce il Cafè dal 2009 dopo l’affidamento ad un custode giudiziario a seguito della confisca alla cosca ’ndranghetista degli Alvaro è arrivato l’avviso di sfratto forzato. «Stiamo svuotando il locale. L’amministrazione giudiziaria non ha pagato gli affitti al proprietario delle mura che è una persona di Reggio Calabria. Ora tutti i dipendenti perderanno il lavoro».

La verità, come ha detto anche il magistrato antimafia Nicola Gratteri, è che certi locali – non è il caso del Cafè de Paris, ovviamente – restavano in piedi perché le cosche fanno dumping: a loro non serve far quadrare i conti, anzi. Per riciclare il denaro la ndrangheta fa «invasione fiscale», emettendo più scontrini dei soldi effettivamente incassati per far confluire il denaro sporco che arriva dai proventi della ‘ndrangheta nel circuito «legale». Quindi certi esercizi, così come certi immobili sequestrati, più che dati in amministrazione controllata andrebbero venduti oppure abbattuti (Gratteri dixit, e io sottoscrivo).

Se i dipendenti dei locali sequestrati ai boss stanno con le cosche perché almeno con loro si lavorava (lo hanno ribadito alcuni camerieri pugliesi a Riccardo Iacona, probabilmente la pensano così anche i dipendenti del Cafè de Paris) e invece odiano lo Stato che li manda a casa poi non bisogna stupirsi del perché la gente non denuncia il malaffare.

Invece mi tocca parlare di politica, capace soltanto di inanellare autogol. Un esempio? Il Consiglio dei ministri ha deciso di  prorogare di altri sei mesi lo scioglimento del Consiglio comunale di Reggio Calabria per «contiguità mafiosa»al fine di «consentire – dice Palazzo Chigi – il completamento delle operazioni di risanamento delle istituzioni locali dove sono state accertate forme di condizionamento da parte della criminalità organizzata».  Reggio è stato il primo capoluogo di provincia sciolto per mafia, e non è un caso visto che la ‘ndrangheta è l’organizzazione criminale più forte al mondo, come ribadisce oggi la Direzione nazionale antimafia (ma ne parliamo più avanti).

Non voglio sollevare perplessità sulla decisione dell’allora ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri perché basata su un dossier più o meno dubbio. A me interessano più le conseguenze di questa scelta.  La città è in mano a delle persone degnissime che però hanno una mission paragonabile a quella che ebbe il disgraziato governo Monti: far quadrare i conti per evitare il dissesto finanziario.  Il come è intuibile, poveri reggini.

Ma il risultato? L’acqua a Reggio adesso costa il triplo ma i rubinetti sono a secco, la Tares è aumentata del 500% ma in città si cammina tra i rifiuti anche perché il cancro nascosto dietro l’infiltrazione delle cosche nelle società municipalizzate (che su Madu’ndrina abbiamo denunciato prima che si muovesse la magistratura) ha innescato una spirale maledetta, con i dipendenti onesti delle società rimasti in mezzo alla strada, come l’immondizia.

La colpa è della malapolitica, ma il prezzo lo sta pagando la città e i boss godono a puntare il dito contro i tecnici, perché qualcuno continua a guardare il dito. Forse era il caso di ridare la parola ai cittadini, a meno che non li si consideri incapaci di decidere il loro futuro, ma se è così che la pensano i governanti di Roma lo si dica in maniera chiara: o si decide che a Reggio non si può fare politica e si commissaria a vita il Comune e amen o si deve tornare a votare subito. Cos’è giusto? Cos’è sbagliato? Io so che vedere Reggio in un tunnel senza uscita mi lascia senza fiato. E credo che da questa crisi di idee, di valori e di credibilità si esce solo ribadendo il primato della politica: la storia insegna che le alchimie di palazzo curano la malattia ma rischiano di ammazzare il paziente.

Questo provvedimento suona peraltro come una bocciatura per Giuseppe Scopelliti e rischia di pesare sugli equilibri di Ncd al governo: la decisione di Palazzo Chigi infatti secondo me metterà in crisi anche i senatori alfaniani calabresi, che dovranno spiegarne alla città i motivi. L’ex sindaco Demi Arena, oggi assessore regionale alle Attività produttive, dice che se Alfano avesse ridato la parola alle urne sarebbe stato tacciato di partigianeria. Mi sembra una bella arrampicata sugli specchi, se non ha di meglio da dire allora auguri.

Se Forza Italia e Ncd piangono, il Pd non ride ma fa ridere. Il sedicente partito della trasparenza e della legalità cerca di uscire dal tunnel dei quattro anni di commissariamento (aridaje) dell’ottimo Alfredo D’Attorre, bravissimo (clap clap) solo a farsi eleggere in Calabria assieme a Rosi Bindi (la commissione Antimafia che combina?) lasciando macerie e – tanto per fare un nome – il sindaco antimafia di Monasterace Maria Carmela Lanzetta fuori dal Parlamento. Chi è la Lanzetta? Una donna coraggio segnata prima dalle fiamme nella sua farmacia a venti giorni dalla sua seconda elezione e poi dal tradimento del Pd che l’ha utilizzata come fantoccio in campagna elettorale (ricordo una foto con un sorridente Pier Luigi Bersani durante le primarie che lo videro – sic! – vincitore) e poi l’ha lasciata a marcire sfiduciandola in Comune.

Al ballottaggio per la segreteria regionale Pd sono finiti in due, il reggino Massimo Canale in quota Gianni Cuperlo e il renziano Ernesto Magorno, convinto di avercela fatta al primo turno per una manciata di voti. Peccato che a Diamante e Belvedere Marittimo, roccaforti di Magorno, secondo Canale e i suoi avrebbero votato troppe persone: una ogni 27 secondi. Però! A decidere sarà la sedicente commissione di garanzia, ma intanto la gente in Calabria ha i rubinetti e le tasche vuote, le strade (e le palle) piene.

In mezzo ci sono i boss che se la ridono pure, lusingati per le parole della Direzione nazionale antimafia che hanno certificato lo strapotere delle ‘ndrine. «Viene confermato dai processi e dalle indagini più recenti la capacità della ’ndrangheta di agire a livello nazionale ed internazionale, ma di mettere radici e consolidarsi in modo strutturato in realtà territoriali anche lontanissime, che, tuttavia, realtà che mantengono il più volte indicato cordone ombelicale con la casa madre», dice la relazione annuale, che parla del proliferare delle «locali» di ’ndrangheta in Lombardia, Piemonte e Liguria ma anche Svizzera, Germania,  Canada e Australia.

Milano, lo sappiamo, è stata colonizzata come dimostrano decine di processi in corso: «Pare ormai attestato – scrive la Dna – che in Lombardia sia esistita una sorta di struttura di coordinamento denominata Lombardia, al cui interno sono rappresentate tutte le locali presenti in regione». Qui, si legge ancora nella relazione, il «capitale sociale» mafioso è «quel bagaglio di relazioni» che i presunti affiliati intrattengono «con il mondo politico, imprenditoriale, giudiziario, delle libere professioni», ossia la cosiddetta «zona grigia».

Su come andanno a finire i processi, però, io ho qualche dubbio. Non crederò mai a una sentenza che stabilisce che Paolo Martino o Pepè Flachi si sentono rappresentati da Pasquale Zappia da Corsico. L’impianto messo in piedi da Ilda Boccassini potrebbe essere messo seriamente in discussione dalle prossime sentenze di Cassazione, lo vedremo nei prossimi giorni. Ne è convinto anche l’avvocato Fabio Schembri (la sua intervista la trovate qui). Intanto Ilda la rossa si è beccata un cazziatone: in sostanza la Dna la accusa di voler condividere con tutti – tranne che con la stessa Dna – le informazioni sulle cosche. Una sorta di riserbo, per non dire di diffidenza, tra un procuratore antimafia e la Direzione nazionale. E la ‘ndrangheta festeggia.

Ps: per non farci mancare niente sappiate che in Spagna hanno aperto una catena di ristoranti chiamati Mafia. Due senatori Pd, Laura Cantini e Mario Morgoni, hanno chiesto all’ambasciata italiana di intervenire contro una scelta che «offende la nostra immagine nazionale e la memoria di tutti coloro che hanno pagato con la vita la lotta alle cosche». E Renzi che ne dice? Non sente anche lui puzza di bruciato?

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