Trump fa il moderato
Se nel suo primo discorso sullo stato dell’Unione aveva fatto un lungo elenco di cose da fare, non potendo fare altro visto che si era insediato da pochi giorni (e tecnicamente il suo non poteva essere un vero e proprio bilancio sulla salute degli States), quest’anno la musica è cambiata. E Donald Trump ci tiene a sottolinearlo, rivendicando con orgoglio i risultati raggiunti: “Questo è il nostro nuovo momento americano – ha detto davanti al Congresso riunito in seduta comune -. Non c’è mai stato momento migliore per cominciare a vivere il sogno americano”. L’eccesso di retorica, comprensibile, si accompagna all’entusiasmo suscitato dalla sua riforma fiscale, accolta benissimo dai mercati e dalle élite finanziarie ed economiche, non solo negli Usa, tanto che a Davos (Svizzera), dove ha partecipato al World Economic Forum, è stato accolto bene. Trump si gode il momento e cerca di sventolare bene i successi del suo primo anno, che definisce “straordinari”. Rivendica di avere messo in atto “il più grande taglio delle tasse e la più grande riforma fiscale della storia degli Stati Uniti” con un taglio di 1,5 trilioni di dollari di imposte, si assume il merito della crescita dei posti di lavoro, dicendo che sotto i suoi occhi ne sono stati creati 2,4 milioni, e anche il merito di guadagni storici della Borsa; poi rivendica che “a un anno di distanza la coalizione anti Isis ha liberato quasi il 100% del territorio che fino a poco tempo fa era in mano a questi killer in Iraq e Siria”.
Tende la mano a tutti, anche ai democratici, perché si rende bene conto, dopo averlo provato sulla propria pelle, che al Congresso per approvare certe misure servono i voti anche di una parte dell’opposizione, quindi è necessario trovare delle intese, uno scambio di “concessioni”. Perché è così che si fa da sempre e anche Trump, l’antipolitico per eccezione, deve farsene una ragione. E l’ha capito. Fermi restando i paletti (tasse e immigrazione), su taluni aspetti si può trattare.
Il tono usato da Trump è volutamente bipartisan. Pochissimo spazio alle polemiche e al muro contro muro. Sembra quasi un altro Trump, un pacificatore, intenzionato a chiudere lo scontro perenne con i democratici: “Insieme stiamo costruendo un’America sicura, forte e orgogliosa. Vi chiedo di mettere da parte le nostre differenze, di cercare un terreno comune e di trovare l’unità”. E ancora: “Tutti noi, insieme, come una sola squadra, un solo popolo, una sola famiglia americana”, ricordando a tutti che al centro della vita americana ci sono “la fede e la famiglia, non il governo e la burocrazia”. Si è reso conto, il presidente, che fare a sportellate è utile in campagna elettorale, o comunque un certi momenti, ma non sempre. Quando si devono portare a casa dei risultati la politica si fa (anche) con la mediazione. Che non vuol dire per forza compromesso al ribasso.
Non si limita a tendere la mano il presidente, dice che intende regolarizzare 1,8 milioni di immigrati illegali, e sottolinea che si tratta di un numero di persone tre volte quello gestito della precedente amministrazione. Massima apertura, quindi, su un tema caro ai democratici. In cambio, però, vuole il via libera per i fondi nercessari a costruire il muro con il Messico, l’aumento del numero di poliziotti che sorvegliano e la fine del sistema che concede i visti tramite una sorta di lotteria, oltre alla limitazione dei ricongiungimenti familiari (chain migration). Compromesso per può interessare ai democratici, ma non a tutti. In ballo c’è la sorte dei “dreamers”, quegli immigrati arrivati negli States quando erano bambini, da genitori illegali, che a marzo rischiano l’espulsione se non si arriva a un accordo, dopo che il Daca (il piano che li tutelava) di Obama è stato abolito. Trump è disposto a fare concessioni, ma non troppe. Il suo primo obiettvo, come ha tenuto a precisare, è sempre quello: “Proteggere gli americani, perché anche gli americani sono dreamers”. Vuole una revisione delle leggi sull’immigrazione che dia priorità ai migranti altamente qualificati. Dell’argomento si discuterà molto presto, visto che la nuova scadenza per lo shutdown è l’8 febbraio.
La risposta dei democratici, nel tradizionale contro discorso dell’opposizione, è affidato al deputato Joe Kennedy III, pronipote di JFK: “I bulli possono sferrare un pugno e lasciare il segno, ma non sono mai riusciti a eguagliare la forza e lo spirito del popolo unito in difesa del suo futuro”. Il bullo, ovviamente, anche se non viene citato, è il presidente Trump. I democratici affilano le armi in vista delle nuove battaglie. A partire dalle elezioni di Midterm. È lì che si giocherà il futuro della presidenza Trump.