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Michele Serra rappresenta la tragicommedia dell’intellettuale progressista engagé, la crisi esistenziale di una sedicente intellighenzia che per lustri ha celebrato la sacralità della democrazia, le sue benemerenze, la saviezza del popolo sovrano, e che oggi arriva addirittura a negarne l’esistenza. Il 7 febbraio scorso, sulla sua nota rubrica di Repubblica – che avevo dimenticato non troppo colpevolmente per qualche tempo e ieri recuperato – Serra scriveva:

 

«“In nome del popolo”, lo slogan che troneggiava l’altro giorno alle spalle dell’uomo forte di Francia, Marine Le Pen, è una truffa. Non esiste “il popolo”, esistono le moltitudini di individui che si raggruppano e si dividono, si alleano e si combattono, cambiano vita e cambiano idea. Nessuno — tranne i dittatori e gli imbroglioni — ha il diritto di parlare “in nome del popolo”».

 

Affermazione sbalorditiva per un teoreta di sinistra. Sconcertante. Ma profondamente indicativa. Quando il popolo esprime un’opinione contraria all’idea di buona vita predicata dalla confessione dei riformisti perbenino, quando elegge a suoi rappresentanti personaggi irricevibili, si dissolve, non esiste più. Gli indizi di questa malafede untuosa erano già manifesti ai tempi di Silvio Berlusconi, quando si puntava il dito sul potere taumaturgico delle televisioni, capace di manipolare l’arbitrio dei miti cittadini più facilmente impressionabili. E più avanti con l’affermarsi di Grillo e Casaleggio, in relazione ai quali si paventava la selvaggia avanzata di una democrazia diretta della connettività che in realtà nascondeva oscure manovre dispotiche.

 

Tuttavia, è stata la recente Brexit a far calare definitivamente le brache di questi bacchettoni laici con i baveri di velluto e la forfora sulle spalle. Quando l’attualità sondaggistica dell’epoca sembrava suggerire una tranquilla vittoria del Remain, gli analisti più illuminati parlavano lecitamente dell’egalitaria beltà del referendum. Un popolo, quello britannico, che aveva il coraggio di prendere in mano il proprio destino e scegliere; un leader, Cameron, che non aveva paura di affidarsi alla propria gente per decidere il futuro della Nazione. Il solito meraviglioso esempio di democrazia, quasi quanto le primarie del Pd. Poi lo scenario cambiò. Si scompaginò. E a distanza di mesi hanno vinto quegli zotici, alcolizzati inglesi di provincia tutti pub e veicoli agricoli, che invece di lasciar fare a chi ne capisce hanno voluto metter becco in cose più grandi di loro. Così per l’aspetto generazionale. Se gli anziani votano «bene», sono la memoria di valori e saper fare della comunità, giacimento insostituibile, inestimabile; se votano «male», vecchi rincoglioniti che andrebbero messi su un barchino al largo del Falkland e lasciati andare alla deriva con un buon libro e una fetta d’anguria. La generazione Erasmus, poi! Perdigiorno, fumati e sgangherati fino a ieri, oggi giovani idealisti che credevano nell’Europa e nel futuro; delusi da tanto oscurantismo.

 

Donald Trump è stata la tortorata finale per il soldatino liberal. Anni fa, professori come Enrico Beltramini, mostrando acuminato comprendonio e toni benevolmente cattedratici si esprimevano così:

«Gli Stati Uniti hanno avuto presidenti di ogni tipo, ma un politico come Berlusconi, visto con gli occhi dell’americano medio, sembra un alieno. Un premier maschilista, razzista e vizioso. Incomprensibile, come il paese che da lui si lascia governare».

Oggi, non potendo confessare la propria stessa torpidezza, ribaltano il tavolo. E allora l’americano medio si trasforma nel berlusconiano di un tempo, asino e bue, gretto e arrampicatore, sempliciotto che non comprende gli schemi generali, che non ha letto i libri giusti. Mentre per questi eroi del discernimento, soli ad avere a cuore le sorti dell’umanità, non resta che affliggersi del degrado politico su scala planetaria e scoccare frecciate ammonitrici. Come sempre maldestramente sbilenche.

 

Così, rappresentare i desideri e le aspettative degli elettori, intercettarne la rabbia e le rivendicazioni, ha smesso di essere grimaldello democratico ed è stato qualificato irrevocabilmente come «populismo». Parola mantra che assimila, che assorbe, che si impregna dell’inettitudine critica e la brandisce come uno stocco pontificio profano con cui scomunicare i bruti, i beceri di tutto il mondo, costretti a umiliarsi per tre giorni e tre notti fra turbini di neve polverulenta ai piedi – se non del castello di Canossa supplicando la Grancontessa Matilda come capitò a Enrico IV – dell’attico di Meryl Streep a Tribeca.

 

Capirete dunque che i sussulti cui è stata sottoposta l’amaca sulla quale è indolentemente accomodato Serra lo avrebbero già fatto stramazzare al suolo e provvidenzialmente sotterrare, se la post-verità non fosse ormai una spada e uno scudo per tutti quelli che praticano la doppiezza di spirito. Il tono del suo argomentare infatti non è cambiato; certo si percepisce una vena più acidula, piccata, a tratti zitella, ma i suoi pistolotti sono sempre molto precettivi, corretti e pregni di squisito sentire, anche quando pretendono di insegnare al panettiere di Torino le buone regole della convivenza civile come accadde un paio d’anni fa; la ragione ci impone tuttavia di scendere dalla pianta e sottolinearne le risibili e maldestre alterazioni.

 

Michele Serra ritiene l’America di Donald Trump «deprimente e bigotta», andava in visibilio per Obama – i cui «avi cantavano il blues e non quel terribile country con la giacca piena di frange» – ed è terrorizzato dalla presidenza di un satrapo così volgare e imbroglione da voler parlare direttamente al popolo. Eppure fu il suo stesso campione, nel celebre discorso alla convention democratica del 2004, a tuonare:

«Proprio in questo momento, mentre ci parliamo, ci sono persone che si stanno preparando a dividerci, esperti di comunicazione e strategia fedeli a una sola politica, quella per cui vale tutto. Bene, voglio dire proprio a loro che non ci sono un’America progressista e un’America conservatrice; ci sono gli Stati Uniti d’America. Non ci sono un’America nera e un’America bianca, un’America latina e un’America asiatica; ci sono gli Stati Uniti d’America. Agli opinionisti piace spaccare il nostro paese in stati rossi e stati blu: gli stati rossi per i Repubblicani, gli stati blu per i Democratici. Ma ho qualche altra notizia per loro. Crediamo in un Dio meraviglioso anche negli stati blu, e non ci piace che gli agenti federali si facciano i fatti nostri anche negli stati rossi. Alleniamo le squadre giovanili di provincia negli stati blu e sì, abbiamo amici gay negli stati rossi. Ci sono patrioti che erano contrari alla guerra in Iraq e patrioti che erano favorevoli alla guerra in Iraq. Siamo un solo popolo, fedele alla stessa bandiera e agli Stati Uniti d’America».

 

Il futuro presidente Obama, nel suo discorso Manifesto, parlava di un solo popolo, di un unico e meraviglioso Dio, metteva in guardia contro quelle serpi in seno intente a dividere. Metteva in guardia, cioè, contro quelli come Serra. Per i quali solo i dittatori e gli imbroglioni hanno il diritto di parlare in nome del popolo. Che imbarazzo!

Cionondimeno, Serra non tradisce solo Barack Obama con le sue convulsioni ideologiche, ma anche Antonio Gramsci, che fondò il quotidiano per il quale l’umorista di natali capitolini ha lavorato così a lungo. Gramsci riteneva infatti che «l’elemento popolare “sente”, ma non sempre comprende o sa; l’elemento intellettuale “sa”, ma non sempre comprende e specialmente “sente”. I due estremi sono pertanto la pedanteria e il filisteismo da una parte e la passione cieca e il settarismo dall’altra».

 

Chirurgica definizione del giornalismo di Serra: pedante e filisteo.

Ma così perbenino che ci stuzzicherà a salire di nuovo con lui sull’amaca dello spirito, per intrecciare pensieri e cestini di vimini fino al definitivo tramonto della bavbavie.

 

 

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