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Uno dei miei primi ricordi di marmocchio, forse il più vivido, è un’automobilina bianca, una Porsche 901 del 1964 in porcellana che brillava dalla vetrinetta del salotto. Come tanti maschietti, sono cresciuto circondato da modellini, poster, piccole vetture radiocomandate. E poi, l’auto vera, quella di papà: «Il potere fascinatore del mezzo, nel mio ricordo infantile, si rivelava nell’accensione: nel fuoco che di colpo alimentava la mole addormentata, nella sera, davanti al cancello aperto». Che cosa si può aggiungere? Alle bambine piacciono le bambole e ai bambini le macchine. Natura e cultura che si abbracciano nel gioco. A dire il vero Santa Lucia mi portò Barbie Fior di Pesco e un tegamino in terracotta quando avevo 11 anni, ma fu certamente per un errore di smistamento. Una volta cresciuto, ho sempre amato guidare velocemente qualunque cosa si guidasse velocemente, la scomparsa di Ayrton Senna mi colpì quasi come la morte di un amico e quando per lavoro mi capita di recensire automobili o motociclette, ne sono sempre entusiasta. Tutto questo per dire che non ho in odio i mezzi a motore, anzi, ne subisco da sempre la malia. Eppure, da che ho memoria, parallelamente alla passione per la meccanica, ho sempre sentito una profonda insofferenza verso lo sferragliare grifagno del traffico cittadino. Da bambino mi faceva paura, da ragazzo mi infastidiva, mentre ora che sono adulto ne ho più semplicemente vergogna. Quando mi trovo sulle strisce pedonali e istintivamente accelero il passo abbassando il capo e ringraziando chi ha compassionevolmente decelerato; quando incontro una mamma al passeggino che, con aliena noncuranza, attraversa la strada sfilata da enormi lapilli di metallo, bombe vulcaniche con l’ABS; ogniqualvolta mi impegno in mirabili equilibrismi per abitare un marciapiede troppo piccolo anche per i miei mocassini; in queste circostanze e in tante altre provo vergogna. Mi imbarazza la follia circostante della quale, da driver abituale, sono complice; da candido passeggiatore o cicloamatore, vittima.

 

Per mettere a fuoco la demente insonnia del pensiero che chiamiamo viabilità urbana non serve osservare il mondo da una navicella spaziale; è sufficiente guardarlo da una terrazza, da una finestra, o dall’altezza di un bambino, di un cane. Lo spettacolo è delirante. I pedoni, gli essere umani, le creature in carne e ossa, sono fastidiosi e ciechi insetti che strisciano radenti ai muri per non essere schiacciati. Soltanto la gradualità nell’intensificarsi della circolazione motorizzata e l’assuefazione quotidiana alla democrazia di massa dell’automobile hanno potuto rendere questa pratica potabile per la ragione. Sono piuttosto i sensi, i nervi, sporadicamente, a darci impercettibile allarme, sotto forma di una insofferenza al rumore, al caos, che nelle persone sane produce qualche provvidenziale attacco di panico. Ogni tanto si reagisce verbalmente, ma quasi sempre con disillusione. E se daresti in pasto ai maiali della Guinea lo scooterista che ti sfila sul marciapiede, l’autista di furgone che ti inchioda al portone di casa, il motociclista che scatta dal semaforo come fosse a Sepang, di fatto subisci. Perché se litighi, il ferro è contro di te. Dostoevskij e Gaber avevano colto l’essenza con esattezza: l’uomo è un essere che si abitua a tutto. E noi ci siamo abituati anche a questo. Ma solo quel genio afflitto di Guido Ceronetti ne ha dato lacerante, lancinante descrizione, con una violenza critica che investe, asfalta, arrota il nostro discernimento, per provare a trarre in salvo almeno i nostri corpi da quello stesso destino:

 

«Il metallo, vestito da coltello, si alza: la carne cade. Arriva di corsa mascherato da proiettile per canna lunga o corta: la carne si affloscia. In forma volatile, attacca la gola dell’uomo e la spariglia. E una grande concentrazione di automobili un’infernale (devo sottolineare questo aggettivo per toglierli un po’ di banalità figurata) concentrazione di metalli, acciaio, alluminio, piombo, cromo, ec. Ma l’uomo non è che carne. Ecco perché la carne (l’uomo a piedi che si vede carne, nuda anche se irta di calzoni) è smarrita e disfatta nel ribollimento metallico del traffico automobilistico; si sente uncinata per la gola, colpita da mazze ferrate, liquefatta da una colata. Siete carne, misericordia. Non vedete, non sentite le Entità piombate mettervi sulla faccia le loro spaventevoli mani? Vedo sovente, con sconforto, gli amici, le donne, i bambini, starsene sotto l’uragano dei metalli come fosse la pioggia buona di Dio che accoglieva felice, sui capelli pettinati di Aisha, la nuca del sigillo dei profeti. Come può la carne ignorare fino a questo punto di essere carne? Se una sbarra d’acciaio vi cade in testa la sentite? Non vi accorgete che le automobili vi prendono a sprangate, anche se non vi toccano? Vi trapanano la testa, vi coprono dei loro escrementi gassosi, vi abbagliano, vi annusano, vi braccano come volpi rincoglionite, vi strinano le arterie, vi regolano il passo, vi burlano come tori, vi strangolano a poco a poco. Ah, fanno di peggio! Vi fanno dimenticare di non essere che carne. Si fanno accettare dalla carne. Allora la carne è spacciata, il ferro ha vinto».

 

Sono convintamente persuaso che nel futuro, in un futuro non troppo remoto, quando i sopravvissuti abitanti del domani guarderanno a ritroso fino alla nostra grottesca epoca, troveranno inconcepibile che esseri umani, nella loro frangibile nudità, e irremovibili involucri di ferro motorizzati si spartissero lo stesso spazio vitale, rendendolo ogni giorno mortale. Un po’ come noi troviamo inaudito che ai tempi della Frontiera le carovane si fermassero quotidianamente per seppellire qualche morto di colera.

Nel solo 2015, in Italia sono morti 601 pedoni. Più in generale, sulle strade urbane ci sono state 1.495 vittime. Una strage, una mattanza. Ignorata o accettata, perché il ferro ha vinto. Quando si affronta la problematica, che si tratti dell’Istat – con la gelida asetticità dei suoi numeri – dell’Associazione familiari e vittime della strada – con il bruciante calore di un cuore straziato – e persino del Legislatore, la limpida irragionevolezza del tutto viene offuscata dal delirio delle perturbazioni incidentali: svagatezza, abuso di sostanze stupefacenti, alcol nel sangue, sonnolenza, uso irresponsabile del telefonino, inopinata reazione al passaggio di una magnetica passera, febbra di macciocapatondiana memoria. Tutte cause reali, eppure microbi di verità, che distolgono l’attenzione dal problema di fondo: se al volante facciamo un errore, per qualunque ragione, non dovremmo correre il rischio di asfaltare una creatura inerme o di morire nel tentativo di evitarla. Da creature inermi, non dovremmo correre il rischio di essere asfaltati per il minimo errore di chi ci impazza a cannone fra le corna. La doppia dimensione dell’esperienza non è servita a nulla. E pur sapendo quel che rischiamo da pedoni, da ciclisti, ci trasformiamo in draghi insofferenti appena messo il culo sul fuoco. «L’uomo a piedi è due volte saccus stercorum. Schiacciatelo senza rimorso». Questa è la verità subliminale e brutale della prassi.

 

Insciente di questa evidenza si è mostrata anche la maldestra legge numero 41 del 23 marzo 2016 che ha reso l’omicidio stradale colposo un reato autonomo. Se l’intenzione era lodevole – responsabilizzare chi guida scelleratamente con la minaccia di una punizione commisurata – l’effetto è quello di colpevolizzare oltremisura chi vive, come chiunque di noi fa guidando nel traffico, in situazioni di incognita oggettiva perenne. Ciò che sbalordisce della condizione umana calata nella disumanità del quotidiano, è la difficoltà di scendere in corsa. A ciascuno di noi è capitato di usare il portatile durante una manovra; anche l’inflessibile censore delle costumanze altrui, che appenderebbe al primo albero chi telefona svagatamente mentre guida, non può negare di averlo fatto almeno una volta. Una volta è sufficiente. E perfino a un mormone brianzolo sarà successo di tracannare due bicchieri di Oltrepo’ prima di mettersi al volante. A separarci dall’essere rubricati come assassini è dunque, semplicemente, il caso. Qui non voglio sottovalutare la condotta criminale di numerose teste di cazzo circolanti, condotta da colpire spietatamente e capillarmente, ma sottolineare la pazzia infernale del contesto, che cerca vanamente di normare l’incubo, come il sonnambulo che dà disposizioni a chi incontra in corridoio. Il fatto che con la nuova legge si possa arrestare in flagranza anche chi si ferma e presta soccorso, certifica l’ottusità del provvedimento. Colpevolizzare preventivamente chi ucciderà, senza capire come colpevole sia innanzitutto l’apparato scenico che rende la tragedia possibile, o forse per distrarsene.

 

«Ma una città senza auto è utopia!». In genere il cittadino pragmatico replica tosto così, dal precipizio cognitivo di quella che in filosofia si chiama alienazione e in logica viene detta fallacia naturalistica: poiché funziona così, così dev’essere.

L’abitudine a circolare per la città con mezzi a motore è tale da farcelo percepire come assolutamente naturale. In realtà ci sono poche cose più alterate. Innanzitutto le nostre città, almeno la stragrande maggioranza di quelle europee, sono state concepite prima dell’avvento del motore. Se è semplicemente grottesco osservare l’ammiraglia del cumenda dialogare con l’urbanistica medievale, lo è altrettanto contemplare i grandi boulevard del centro, pensati per le carrozze e oggi trasformati in superstrade. E poi esistono prove provate del contrario, come dimostra il caso atipico, eppure emblematico, di Venezia. Inoltre, le domeniche a piedi hanno avuto il benefico effetto di far immaginare, agli abitanti delle metropoli, che cosa potrebbe significare riappropriarsi della città. Vivere le strade vuote di auto e piene bambini, di animali, di campanelli. Un’epifania di breve durata, incapace di determinare una presa di coscienza collettiva profonda tale da generare progresso autentico. Il positivismo meccanizzato dei cervelli ha ripreso la sua marcia con argomentazioni impiegatizie; eppure qualcosa si muove senza motore, qualcuno pensa l’uomo a guida di se stesso.

 

Oslo dichiara di voler chiudere il centro alle auto dal 2019, corroborando trasporti pubblici e piste ciclabili. La galiziana Pontevedra è l’unica città da oltre 50mila abitanti in Europa ad essere quasi interamente pedonalizzata. Le auto sono state estromesse da 16 anni, modellando la struttura urbanistica e le abitudini di vita sulle esigenze dei più deboli, gli anziani e i bambini, con l’ovvia conseguenza di un innalzamento della qualità della vita in tutti i parametri sensibili per un essere umano: calo drastico degli incidenti, aria più respirabile, intensificazione del commercio, sviluppo delle aree verdi. Il sindaco di Rieti Simone Petrangeli e qualche altro amministratore italiano hanno fatto viaggi-studio a Pontevedra per studiare le soluzioni adottate dal collega spagnolo Miguel Anxo Fernandez Lores.

Eppure, scardinare quell’offesa del metallo alla nostra carne che chiamiamo traffico è di complicata realizzazione poiché «la religione del lavoro impone, paradisiaco sbocco, l’automobile». Perché abbiamo adescato «con l’odore della potenza e del prestigio sociale tutti i prepuzi, tutti i tarati delle città e delle campagne, tutta la schiuma della terra, i discendenti della Tortuga, il fiore della ruffianità, i rifiuti dei porti, delle stive, delle stazioni, delle università, delle caserme, degli ospedali, dei commerci, dei giornali, dei parlamenti, delle chiese, dei bordelli, delle morgui e dei cimiteri, palpabilmente vampiri. Tutta questa infezione, uscita dalle sue croste, si è rovesciata dentro i metalli da strada, smaniosa di abolirsi come carne e pretendendo, per speranza di felicità, di essere cosa».

 

 

 

 

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