Kissini a tutti i cyberburini
I sempre più numerosi episodi di cyberbullismo che si rincorrono sulle pagine dei giornali costringono a calarsi con travagliato disincanto in un territorio dove il diritto internazionale non è ancora approdato. La polizia postale italiana ha registrato 235 casi di minori vittime di bullismo online nel solo 2016 mentre la storia a infausto fine di Tiziana Cantone si è rivelata tragica sintesi delle relazioni pericolose in tempi di smartphone e Internet. La giornalista Selvaggia Lucarelli denuncia e perseguita con caparbietà chi schernisce e offende in rete, forte di un milione di seguaci che in molte circostanze ne appoggiano l’operare divenendone moltiplicatore.
Lo sforzo è meritorio e potenzialmente deterrente, ma sullo slancio di un genuino desiderio di giustizia finisce talvolta con il cadere nella rappresaglia; ridicolizzare implacabilmente, inchiodare pubblicamente alla gogna delle proprie responsabilità gli autori-divulgatori del materiale incriminato – spesso patetici ancorché molesti minchioni – non fa che aggiungere un anello alla catena del sopruso in una declinazione multimediale della lex talionis.
Mettere le mani in questa melma per trovare qualcosa a cui aggrapparsi è dunque disagevole. Di certe ci sono la violenza e la frustrazione che trovano sempre, da che esiste l’uomo, un canale dove riversarsi. L’anonimato del web aiuta la prevaricazione gratuita; ma anche il pensiero unico certificato, come sostengo da tempo. Accusare di razzismo, di intolleranza, per esempio, permette di essere violenti quanto si vuole, intolleranti quanto si è, perché si agisce in nome dell’idea legittima certificata. Quindi mortificare il prepotente concede di esercitare prepotenza, emarginare il razzista di essere razzisti, con la coscienza e la fedina penale pulite. Poi c’è il branco, che consente di essere violenti con l’anima lieve, poiché nel gruppo si diluiscono ulteriormente le responsabilità. Perciò il web è un acceleratore, un aggregatore della violenza, che già c’era, a scuola, negli spogliatoi, nelle caserme, in piazza, prima di Internet, ma che ora acquista quel carattere virale, imperituro e immateriale che terrorizza.
L’intelligenza è innanzitutto prudente. Purtroppo l’intelligenza è di pochi, quindi aspettarsi prudenza digitale sarebbe poco intelligente. E il mondo digitale è di tutti. Imbullonare la canaglia alle proprie responsabilità è astrattamente ineccepibile, ma concretamente velleitario e spesso controproducente. Se dovessi cercare un antidoto, quando si è trascinati nel tritacarne, difficilissimo da iniettare nelle vene sobbollenti di un adolescente, ma anche di tanti adulti… è l’autoironia. L’autoironia rappresenta l’unico contravveleno cui riesco a pensare in un contesto così irriducibilmente deregolamentato, imprevedibile e brutale. Eleva sempre, produce un ribaltamento dell’energia negativa istantaneo.
A tal proposito, il rovente caso Leotta di qualche mese fa è emblematico. La Diletta giornalista di Sky, vittima di un vigliacco attacco informatico che diffuse immagini e video privati molto audaci, si era detta profondamente indignata, rilasciando un comunicato stampa disgustato in cui dichiarava di voler far chiarezza e dava consigli alle giovani su come difendersi. A Sanremo è poi apparsa proprio come testimonial della lotta al cyberbullismo e in quella sede ha invitato le vittime a denunciare ogni violazione della privacy e a non avere paura. Ora, in una situazione così sgradevole, molto più efficace e istantaneamente catartica sarebbe stata una presa di posizione di questo tipo:
«Sì, è vero, ho scattato un po’ di foto con le tettine di fuori. E per gioco mi sono fatta riprendere mentre inciampavo elegantemente in qualche pisellata. Ma diciamocelo, è così grave? La prossima volta, tuttavia, sarò più gelosa delle mie grazie e le concederò solo a chi se le merita davvero. Nella disdetta, sono contenta che almeno qualche bisognoso ne abbia goduto. L’unica cosa che vorrei precisare è che non sono io la ragazza con il culo per aria in quell’austera camera da letto; mai e poi mai, infatti, avrei potuto prostrarmi in quella licenziosa posizione di fronte a un quadro della Vergine».
Ecco, una dichiarazione di questo tipo avrebbe fatto osannare al Diletta Santa subito. Ciò considerato, se proprio volessimo essere precettivi per le giovani donne, seguirei il consiglio della spigolosa criminologa Roberta Bruzzone offerto il 14 marzo al salotto di Porta a Porta ed eviterei del tutto di produrre materiale pecoreccio, anche quando il Maicol della situazione vi prega così insistentemente di farvi riprendere. Perché difendersi da un maniaco informatico determinato a nuocere e con materiale compromettente a disposizione è, rebus sic stantibus, veramente complesso. Ma di nuovo, a frittata fatta, omnia munda mundis e con l’abito dell’autoironia si va a teatro come in trincea.
Martina Dell’Ombra de Broggi de Sassi (Federica Cacciola), altra protagonista dei social network con oltre 225mila follower, è la liberatoria reazione all’ansia forcaiola e paranoide come all’abuso informatico, perché incarna nella sua geniale maschera di nouveau riche gigolette pariolina, pimpante e scimunita – caricatura neppure troppo intemperante di una generazione di teste disabitate – ciò che è invulnerabile.
I tanti sprovveduti che anche dopo decine di visualizzazioni non vengono punti da vaghezza possa trattarsi di un consapevole satireggiare, la insultano con primigenia ferocia. La ingiuriano, la scherniscono, la violentano con un dettato primitivo e con la propria stupidità. Eppure, questi cyberburini neppure la scalfiscono. Per quale ragione? Perché l’autoironia è invincibile.
Ciononostante, pur essendo più accessibile di altre virtù, richiede profondo senso di sé per poter essere maneggiata. E una certa qual dose di santa indifferenza nei confronti dell’opinione. Oggi, malauguratamente, a trionfare non è la consapevolezza di sé – nei vizi come nelle virtù – ma il narcisismo (con la deriva del disturbo narcisistico di personalità), che dell’opinione altrui si nutre. E che quindi ne può essere vittima. Avere bisogno degli altri per esistere, trovare nella battaglia dell’approvazione l’unica battaglia degna di essere combattuta, mette la propria vita nelle mani di sconosciuti. Che per narcisismo proprio, a loro volta, possono stritolarla.