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Chi mi ha letto qualche volta e chi mi conosce sa che sono convintamente sessista. Credo infatti che la donna sia un poco più vicino al cielo dell’uomo. Detto ciò, con profonda afflizione sono costretto a registrare come negli ultimi decenni, sulla spinta di una male intesa emancipazione, la femmina sia scesa al livello del maschio non soltanto nel carrierismo, nelle stolide ambizioni esistenziali o nel correre ad accendersi una paglia dopo la copula, ma anche nella scurrilità e nel turpiloquio. Se l’insulto raro e ben tornito ha un’efficacia retorica inoppugnabile, l’intercalare triviale, o magari la blasfemia spudorata, sono sulle labbra femminili come una scalpellata al panneggio di Maria della Pietà vaticana di Michelangelo.

 

 

Illibate fanciulle ancora lontane dalla maggiore età che ti mandano a fare in culo al primo semaforo dalla sella dei loro scooter, supermodel di fama planetaria con il dito medio sempre in canna pronto a perforarti, avvenenti store manager da Design Week che tirano giù tutti i santi del paradiso appena il tramezzino dell’aperitivo affresca di maionese la loro camicetta Bagutta; suvvia signore, un po’ di urbanità!

 

Alla patetica femminilizzazione del maschio – che lungi dal renderlo più raffinato, lo ha fatto ancor più greve – si affianca la mascolinizzazione della femmina. Oppressi dall’oscenità dilagante vorremmo trovare ristoro nel bello, nel cortese, come viandanti beduini in cerca di acqua pura, e più non possiamo. In genere, le dolenti sensibilità da sceriffo Ed Tom Bell o da nonno Gildo tendono a non darsi pace per la corruzione in atto, di cui faticano a mettere a fuoco la natura; ben lungi dall’essere maleducazione, l’ostentazione del vituperio è ormai inequivocabile simbolo di cazzimma. Fa status, almeno fra i subumani in maggioranza. La ragazza «giusta» non è più quella che ti gela inarcando un sopracciglio dall’alto delle sue Ferragamo, guardandoti come un parigino guarderebbe un turista; piuttosto la badass bitch con i biker ai piedi, una bestemmia tatuata sulla schiena, che in caso di frizione ti insulta la famiglia in beatboxing.

 

Se l’uomo non è più uomo quando si esprime con trivialità, la donna è certamente meno donna quando lo imita. Per cui vi assicuro, ladies, scimmiottando la nostra turpitudine o appecoronandovi a essa non fate onore alla vostra superiorità ontologica e al contempo non vi rendete più desiderabili agli occhi degli osservanti coltivati; noi semplici country gent, così ansiosi di venerarvi come divinità, ci troviamo in imbarazzo nel vedervi imbrattate delle nostre medesime miserie. Personalmente poi mi spingo oltre e trovo nemiche di ogni slancio elegiaco come di ogni erezione anche le femmine che parlano di Champions League, di prodotto interno lordo o di consigli di amministrazione, ma non vorrei ampliare troppo la gittata di questa riprensione.

 

Avere sempre un «cazzo!» in bocca, in ogni caso, è una staffilata a quel garbo idilliaco che il sesso femminile custodisce dai tempi dell’Eden nei miti sumeri e che dovrebbe poter fiorire ogni anno all’arrivo della primavera. Perché la forma ha il potere di trasfigurare la sostanza. Se è vero che la fanciulla sensibile, che si fa il segno della croce davanti alle riduzioni delle Demoiselles d’Avignon o dei primi pezzi per pianoforte di Schönberg, è più barbara della barbarie di cui ha paura, e che la giovane alto borghese da film di Claude Chabrol può essere più pericolosa della Bulla di Bollate, è inequivocabilmente difficile essere odorose e aggraziate in punta di porconate.

 

Sono a tal punto ossessionato dalla ricerca di una donzella contemporanea incapace, per celeste pudore e rispetto di sé, di articolare una volgarità, anche una soltanto… da intercettare con il radar dell’eros ogni conversazione promettente, ogni intonazione velatamente flautata, nella viva speranza di poter trovare una Madame de Tourvel, una Amy Fowler Kane, o magari una semplice Liliana Balducci d’oggidì.

 

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Così allungo le antenne fra le frasche dell’area cani, spio con le orecchie i tavolini dei caffè e le panchine, ascolto nascosto dietro gli occhiali da sole le discussioni fra innamorati; ma anche dopo incoraggianti imprecazioni tipo «caspita!», «capperi!», «accidentaccio!» o squisite interiezioni come «hélas!», «per l’amor del cielo!», l’aborrevole contumelia fa sempre capolino, generalmente con un definitivo: «Dai Amo… non scassarmi la minchia!». Il più delle volte indirizzato a uno di quei ridicoli smargiassi – che oggi rappresentano l’alternativa testosteronica all’hipster sessualmente equivoco – con le brache all’altezza del cavo popliteo, le catene al collo, i capelli rasati ai lati e un cavedano ingellato al centro, meritevoli di essere considerati dalle ragazze come animali da soma e invece presentati con tutte le cerimonie a mamma e papà.

 

L’atrocità ferale dei tempi, pornografici per gusto, ipocrisia e doppiezza, fa sì che il politicamente ritoccato renda inoffensivo tutto ciò che è critico, trasformi in analcolica la birra dello humor, ma raramente ingentilisca ciò che è privo di grazia. Per cui al moltiplicarsi dei tabù linguistici cretini, si sono aperte le gabbie alla più totale licenza nei riguardi della parolaccia gratuita e delle imprecazioni, percepite come liberatorie. Se pronunci «negro» ti cacciano da scuola, ma puoi maledire la Madonna con il suo bambin Gesù e l’insegnante farà spallucce; se inviti una donna a spendere consigli sulle marmellate e non sulle marcature da calcio d’angolo sei sessista, ma una signora può darti del figlio di troia per una precedenza contestata senza che questo sia percepito come inappropriato, se non dal diretto interessato e dalla sua chiacchierata genitrice.

 

Purtuttavia non mi compiango più di tanto e vi invito a fare lo stesso, persuaso come sono che l’abbruttimento dei costumi, capace di livellare anche le principesse al sentire semantico di un camallo, sia, paradoxalement, infallibile cartina tornasole per conoscere il pH celeste degli ultimi angeli rimasti sulla terra.

 

 

 

 

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