I peggio abbigliati
Dopo aver raccontato i meglio vestiti sul pubblico palcoscenico, è giunto il ferale momento di descrivere i peggio abbigliati. La palette di tonalità tende all’infinito, così mi limiterò a trascegliere macrocategorie il più possibile esemplari, dalle quali ho escluso quella degli hipster sessualmente equivoci, perché per essa ci sono i fashion blogger.
In questa discesa negli inferi del cattivo gusto è necessario iniziare dai traditori, dagli impostori, ovvero da coloro i quali pur padroneggiando il classico internazionale, lo profanano, lo degradano, lo riducono a caricatura. In questa divisione spiccano Gianluca Vacchi e Lapo Edovard Elkann. I due non più giovanissimi rampolli vorrebbero passare da irriverenti, provocatori e trucibaldi, da Brummell del nuovo millennio, e invece finiscono per essere percepiti come agghindati spaventapasseri.
Certamente Lapo e Vacchi hanno avuto accesso al meglio della prammatica e hanno manifestato il piacere di servirsene. Ma la droga dell’esibizione e dell’ostentazione ne ha corrotto l’anima e con essa il gusto, rendendoli macchiette degne di sberleffo. Per far capire la prassi di cui sono propagandisti mi servirò delle parole di uno degli ultimi intellettuali italiani, Giancarlo Magalli, quando ci addottorava sulla legge dell’entropia: «Un mucchio di spazzatura con una spruzzata di Champagne… è spazzatura; una coppa di Champagne con una spruzzata di spazzatura… è ancora spazzatura».
Lapo meriterebbe di finire nella Caina dantesca per aver tradito il magistero dei parenti, mentre Vacchi nella Giudecca, imprigionato dal ghiaccio, riparato solo dal calore dei suoi microslippini bianchi. Gli infedeli vanno isolati e per loro non può esserci redenzione. Ma ora immergiamoci nel fetore delle altre tipologie di volgarità.
Il Giacalüstra.
Questa è la categoria che negli ultimi 20 anni ha infettato il mondo più di ogni altro virus sociale. Il giacalüstra è quel fenotipo da playboy di Viale Ceccarini o da viveur di Marina di Massa che si è affinato e ora si crede giusto perché veste come Carlo Conti. Incarna l’evoluzione del pescegatto. E’ il pescegatto rampante e fighetto. Tòpoi della famiglia sono la perenne abbronzatura mogano, l’aria laccata, gli abiti attillati e appunto lucidi (ma ama molto anche le giacche in cotone delavé), le sciarpettine strizzate al collo, i risvoltini alle caviglie, la gragnuola di braccialetti, una passione per le impunture, i bottoni, le toppe a contrasto, i calzini a righe orizzontali e le camicie nere. I più azzimati, magari direttori di magazine fashion, sfoggiano montature eccentriche, bretelle, Borsalino, i mocassini in cuoio o le derby double boucle indossate senza calze da febbraio. Renzi è uno sbiadito e democristiano giacalüstra Ovs bespoke, anche quando lo vestono Cucinelli. Dozzinale come solo un piazzista di provincia sa essere, sembra ancora sognare di diventare, magari fra qualche anno, un giovane di Forza Italia.
Italiano Medio.
Per Maccio Capatonda il lemma di riferimento è «scopare!». Magari fosse così. In realtà l’esclamazione sinottica che meglio racconta la specie endemica è «logato!». Qualunque cosa abbia un logo, un monogramma, un marchio, una patacca che permetta di distinguersi facendosi riconoscere, vince. Tutto ciò in grado di comunicare immantinente lusso e bella vita: Rolex, Vuitton, Chanel, Prada, Gucci, Burberry, Hogan, Nike, Moncler, Baci & Abbracci… sono le uniformi brandizzate dell’italiano medio, vere o taroccate; ma anche Luna Rossa, Ferrari, Mercedes, Audi, M&C, Veuve Clicquot, Apple, gagliardetti di squadre di calcio, di basket, di polo… gli si sono appiccicati addosso come una seconda pelle. Stigmate che in viaggio ti permettono di riconoscere i compatrioti anche a 50 metri di distanza all’aeroporto internazionale di Kuala Lumpur perché vedi arrivare un piumino della nazionale di sci. Campione di questo popolo è Bobo Vieri.
Il Dandy di Durazzo.
In questa selezionatissima classe inserisco solo tre nomi conosciuti al grande pubblico, perché Nichi Vendola è ancora troppo ordinario per essere all’altezza di una menzione: Giannino, sempre Oscar per i costumi; Klaus Davi, ancora arbiter inelegantiae; Gianpiero Mughini, uomo di finissimo intelletto, ma dall’aborrevole senso cromatico. Tutti e tre meriterebbero di épater le bourgeois in Albania e Macedonia.
Il Bracalone.
E’ quel tipo umano che sembra inciampato nei vestiti. Che quando annoda la cravatta, lo fa all’altezza dello sterno. Che ha le maniche della giacca a muffola, poiché arrivano a coprigli le mani, e i pantaloni con appiombo parabolico. Il bracalone soffre quando è chiamato alla formalità; insofferente come un castrone baio a cui il taglio non è andato giù. Monumentali esempi di questo specimen sono Matteo Salvini e Roberto Fico. Il primo litiga con gli abiti come con «gli euro» e ha il coraggio, nel 2017, di indossare l’orecchino come simbolo di chissà quale pensiero alternativo. In tal senso, tuttavia, c’è chi fa peggio, ovvero Andrea Scanzi e Claudio Cerasa. Agli antipodi in tutto – politica estera, politica interna, idea di giornalismo – uniti dal piercing all’orecchio. Roberto Fico invece è l’epitome di quei 5Stelle che, per il bene del Movimento e degli spettatori, non dovrebbero avere pubblica ribalta. Fico già porta un cognome ossimorico, in più viene da Napoli, capitale di eleganza e cultura sartoriale. Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfiro-genito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, Fico, fu partenopeo. Attolini, Rubinacci, Marinella, Panico, il Gran Maestro Maresca, lo sono. E tu sembri uscito da una giungla del Guatemala precoloniale, di cui presenti segni tangibili sulla pelle con un primitivo e propiziatorio manufatto legato al collo che ammicca inquietante sotto camicie da controllore di Trenitalia e zainetto da InterRail. A ciò si aggiunge una facondia abborracciata, una lucidità comunicativa alterna e la freschezza in viso di chi è appena uscito vincitore ai punti da un match di pugilato con un prosciutto.
Infine, dopo aver schizzato le categorie imperanti sul nostro territorio, vorrei soffermarmi un momento su di una curiosità che avvicina uomini di cultura, politici e giornalisti di tutti gli schieramenti, con una portata trasversale ai limiti del consociativismo, tanto da ratificare una «Repubblica democratica, fondata sul button-down». Cacciari, Mentana, Travaglio, Rondolino, Civati, Augias, Alemanno, Cuperlo, Consorte, Romano, Giannini, Salvini, Bersani, Nava, Rutelli, Alfano, Sassoli, Buccini, Stella, Galli della Loggia e tantissimi altri ne fanno uso abituale. Come si nota dall’eterogeneità dei cognomi, la camicia button-down esercita una malia irresistibile a tutte le latitudini intellettuali. Com’è ovvio dalle personalità chiamate in causa, i contesti in cui viene utilizzata sono eminentemente formali o addirittura istituzionali, e non da picnic nelle campagne del Sussex o sulle spiagge degli Hamptons. L’unica spiegazione che mi regalo per questa poco pertinente mania è che i nostri protagonisti ritengano quei due bottoncini giovevoli per incorniciare la cravatta… e la cosa li faccia sentire più in ordine. Come quando la mamma ti diceva: «Tato mettiti in ordine che andiamo a trovare la nonna». Certo che, se l’alternativa all’ubriacatura da allacciatura sono i colletti alla Pizzarotti… in alto i calici per le button-down!
In ogni caso, vorrei informare i nostri che questo genere di collo donava poco anche a un giovane Robert Redford, figuriamoci a un maturo David Parenzo. Inoltre, a tutti gli anti-americani di casa nostra che la sfoggiano, terrei a segnalare che nell’universo simbolico della camiceria, la button-down polo collar shirt, quella di Brooks Brothers in particolare, è l’effigie del classico statunitense. Ispirata alle divise dei giocatori di polo che domavano le punte del colletto con dei bottoncini durante le galoppate, adorata da Fred Astaire, la button-down originale conserva intatta la sua aura Ivy League, con quel collo soffice e disinvolto (soft roll collar), in effetti ideale per attagliarsi alle suggestioni preppy di Vito Crimi. Se in bianco e non nel suo tradizionale cotone pinpoint Oxford, tollera anche registri formali, purché a bottoni slacciati. A meno che, naturalmente, non arriviate a cavallo. Come immaginiamo sopraggiunga, avendoli sempre serrati a vite, Giovanni Floris di martedì. Alè!