Riina e la dignità
Il lucido e avveduto Enrico Mentana ha reso pubblica su Facebook una riflessione a proposito di Salvatore Riina; riflessione che riporto integralmente, senza link:
«Per essere molto chiari: potremmo passare molto tempo a raccontarci cosa meriterebbe di orribile Totò Riina per tutto quello che ha fatto e deciso da capo di Cosa Nostra. Potremmo evocare tutte le morti che ha provocato, tutte le vite che ha segnato, tutto il male che ha portato alla Sicilia e all’Italia. Ma, appunto, siamo in Italia, uno stato di diritto, quello in cui i cittadini magari odiano i politici ma amano tantissimo la Costituzione. E quella Costituzione parla chiaro, e ci ricorda quello che dovremmo sapere già da soli, che il diritto non è vendicativo, ma severo. E l’articolo 27 ci spiega che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Perfino Totò Riina, che ha fatto sciogliere bambini nell’acido, che ha fatto saltare in aria con uomini e donne della scorta Falcone, e sua moglie, e Borsellino, che ha fatto uccidere il generale Dalla Chiesa e sua moglie, e mille altri orrori, perfino questa impersonificazione del male ha diritto al rispetto delle leggi. Ma senza sconti, senza scarcerazioni o domiciliari. Senza furbizie. Con la forza del diritto. Come ogni ergastolano di cui è possibile vedere il vero approssimarsi della fine, si prepari per allora il suo trasferimento presso i suoi familiari. Ma fino a quel momento non è nemmeno da mettere in discussione la prosecuzione del 41 bis. Per rispetto di chi è caduto, di chi lo ha combattuto, e di tutti noi. La nostra forza è la legge, non qualche sgangherata riedizione in chiave elettoralistica del codice di Hammurabi».
Ora, proprio in virtù della manifesta assennatezza di Mentana, che leggo spesso con piacere, come di molti fra i suoi seguaci, è bene setacciare questa esposizione, poiché emana istantaneamente un deciso sentore di bias di conferma. In buona fede intellettuale, ma tant’è. Aderire alla «forza del diritto» quasi come professione di fede, ribadita rispondendo alle obiezioni dei commentatori – «io credo nel diritto» – somiglia sinistramente al fissarsi della credenza. Angustiato dal dubbio e alla ricerca di una convinzione, appena ne trova una soddisfacente, il pensatore si placa. E non importa che questa credenza sia vera o falsa, ciò che conta è che la si possa difendere come vera di fronte al proprio stesso tentativo di autocorrezione. Il suo spiccato potenziale persuasivo, per le medesime ragioni di cui sopra, la rende infine ancor più insidiosa.
Scrivere «io credo nel diritto», infatti, non ha alcun significato. In termini pedantemente logici è una fallacia di vaghezza. Ma cheta il dubbio con la sensazione di aver affermato qualcosa di vero e inoppugnabile. Quale diritto? Quello che Pascal tratteggiava così: «Nulla si vede di giusto o di ingiusto che non muti col mutare di clima. Tre gradi di latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche; l’entrata di Saturno nel Leone segna l’origine di questo o quel crimine. Singolare giustizia che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là». Questo diritto? Mentana si riferisce esclusivamente alla verità della Costituzione italiana, alle righe dell’articolo 27 che cita nel suo post di Facebook. Anche sospendendo il giudizio sull’osservanza formale e sulla riverenza ideale che lo Stato italiano ha mostrato nei riguardi di quel diritto in cui crede il giornalista, specie in relazione alle mafie, è davvero così corto e impiegatizio il respiro che vogliamo dare ai nostri pensieri sul governo della giustizia?
Se Riina fosse condannato, ad altre latitudini democratiche, alla pena di morte, Enrico Mentana crederebbe ancora nella forza del diritto? E’ notorio vi siano Stati di diritto dove si applica la pena capitale. Condannare a morte un omicida comporta anche l’assassinio della sua dignità? Immagino che il coerente Mentana, in accordo con l’articolo 27 della nostra legge fondamentale, a quest’ultima domanda risponderebbe affermativamente. Ebbene, per proseguire con accuratezza l’indispensabile indagine critica, riprenderei Kant ed Hegel, attraverso Norberto Bobbio – non qualche sgangherata riedizione in chiave elettoralistica del codice di Hammurabi – al fine di verificare, di fronte al tribunale della ragione, chi abbia più diritto a discettare di diritto:
«Kant, partendo dalla concezione retributiva della pena, secondo cui la funzione della pena non è di prevenire i delitti ma puramente di rendere giustizia, cioè di fare in modo che ci sia una corrispondenza perfetta fra il delitto e il castigo (si tratta della giustizia come eguaglianza, di quella specie di uguaglianza che gli antichi chiamavano “uguaglianza correttiva”) sostiene che il dovere della pena di morte spetta allo Stato ed è un imperativo categorico, non un imperativo ipotetico, fondato sul rapporto mezzo-fine. Cito direttamente il testo, trascegliendo la frase più significativa: “Se egli ha ucciso, egli deve morire. Non vi è nessun surrogato, nessuna commutazione di pena, che possa soddisfare la giustizia. Non c’è nessun paragone possibile fra una vita, per quanto penosa, e la morte, e in conseguenza nessun altro compenso fra il delitto e la punizione, fuorché nella morte, giuridicamente inflitta al criminale, spogliandola però di ogni malizia che potrebbe nel paziente rivoltare l’umanità. Hegel va ancora oltre. Dopo aver confutato l’argomento contrattualistico di Beccaria negando che lo stato possa nascere da un contratto, sostiene che il delinquente non solo deve essere punito con una pena corrispondente al delitto compiuto, ma ha il diritto di essere punito perché solo la punizione lo riscatta ed è solo punendolo che lo si riconosce come essere razionale (anzi lo si “onora”, dice Hegel)». E qui di un uomo d’onore si sta parlando.
Mentana crede nel «diritto», sostiene che «la nostra forza è la legge»; diritto, legge, parole all’apparenza liturgiche ed impositive, ma che sono più prosaicamente gli elementi normativi con cui abbiamo deciso di regolare la vita della nostra comunità, irriducibilmente imperfetti, legittimamente in trasformazione come il sentire della comunità medesima, costantemente emendabili. La Costituzione italiana ritiene che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato. Immanuel Kant troverebbe questa posizione aborrevole: non si punisce per correggere, ma solo perché è un dovere punire. Chi crede maggiormente nella «forza del diritto»? Kant o i padri costituenti?
La nostra Costituzione non ammette la pena di morte. Bobbio stesso riteneva fosse giusto non amministrarla, giudicandola un omicidio legale premeditato. E ammettiamolo. Cionondimeno, pur non potendo né volendo applicare l’uguaglianza correttiva – sciogliere il colpevole nell’acido, per esempio – nel caso in questione trovo doveroso prendere le distanze da ogni basso ossequio alla legalità. Anche in accordo con convinzioni profonde, poiché filosoficamente confido nel riscatto della punizione e cristianamente credo che «chi si umilia sarà esaltato»: colui il quale ha brutalizzato la dignità degli innocenti e dei valorosi deve perdere la propria per sperare di poterla riconquistare. Morire in galera, nel familiare oblio della propria coscienza, nell’incommensurabile distanza fra le pene inflitte e quelle che si patiscono, mi pare una maniera sufficientemente onorevole di perdere la dignità.