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Così come non potevo vantare una militanza leghista, non posso fregiarmi di essere grillino. L’unico rapporto che ho con il Movimento è un’amica entusiasticamente attivista e il ricordo di un incontro con il comico genovese ai tempi dell’Università. Lo incrociai in Strada Maggiore a Bologna mentre passeggiavo al fianco di un collega di studi. Il mio compagno, alzando leggermente la voce, mi informò eccitato del sui arrivo: «Guarda, guarda… c’è Beppe Grillo!». E l’istrione: «Dov’è?! Dov’è quel cialtrone?!». Siparietto che mi confermò il mefistofelico genio del barbiglio ligure quanto la sua rea confessa cialtroneria. Aneddotica necessaria per far emergere il mio quieto disincanto nell’affrontate la questione, che tratto in questo spazio per la prima volta e che credo di poter osservare senza pregiudizi.

 

 

 

Come ogni movimento popolare post-ideologico, anti-partitocratico, leaderistico ma anti-verticistico, che privilegia la partecipazione della base alle assemblee congressuali, il 5Stelle presenta molte contraddizioni e approssimazioni. L’ansia della politica diretta, alimentata dal rivoluzionario propellente della rete, proprio perché consente brucianti accelerazioni di status e impatto decisionale, rischia di far dimenticare l’importanza di un percorso per tappe, durante le quali si apprende anche, se non soprattutto, la sottile arte della prudenza; cosa che molti grillini, catapultati spesso in pochi mesi da uno sportello di provincia alla ribalta nazionale, non hanno mai imparato. Il Movimento, per sua stessa eterogenea natura, si sforza in molte circostanze di conciliare l’inconciliabile e lo fa in maniera piuttosto maldestra. A ciò aggiunge quell’aura da congregazione digitale, da setta multimediale, che dà il supplizio ai non iniziati. Alcuni suoi rappresentanti sono sorprendentemente caricaturali, altri più banalmente sprovveduti. Fico e Crimi, per esempio, andrebbero assegnati alla biglietteria del Grillo vs Grillo show, possibilmente senza l’amplificatore a disposizione. Sorprende poi che un soggetto politico nato da un “guru della comunicazione” come Casaleggio faccia proprio della divulgazione il proprio nervo scoperto; quando presenti Rocco Casalino come capo della comunicazione, dopotutto, certifichi ineluttabilmente il tuo dilettantismo. Ciò riconosciuto, il Movimento manifesta il suo diritto di esistere con rispettabile schiettezza e rimarchevole coraggio, dimostrandosi capace di convogliare lo slancio partecipativo più rilevante che il popolo italiano abbia espresso da che non è più suddito di un sovrano.

 

 

Su queste basi, l’odio che i pentastellati suscitano, ragionevole e ben motivato nell’establishment come nelle sedicenti élite fighette, è apparentemente paradossale quando erutta proprio fra quella gente comune che il Movimento nasce per difendere. Che un Massimo Franco ne rimesti con perfidia ogni sbavatura, lasciando intendere, asfissiantemente, in ogni suo intervento sull’argomento, che l’esistenza di Grillo è possibile soltanto come conseguenza del cataclisma altrui, ci sta. Che uno Zucconi li tratti con melliflua causticità, pure. Sono a conoscenza del fatto che molte autorevoli voci dello stesso Giornale ne sono implacabili esaminatori: ma ancora, tutto legittimo. Altresì comprensibile è che buona parte della classe media li guardi con sicumera: berteggiare i grillini equivale a tutelare i rifugiati e gli islamici; fa molto bourgeois-bohème. A lasciare attoniti è che financo il responsabile marketing di un’azienda di taping per alluce valgo o il cameriere al caffé della stazione si esibiscano in atteggiamenti sussiegosi di fronte a chi si batte quotidianamente per loro. E sorprende che gli ex compagni da Festa dell’Unità abbiano preferito concretizzare il proprio stesso genocidio, abbracciando il Bomba al neurone, invece di supportare un manipolo di idealisti che provava semplicemente a ridare voce al proletariato. La recente alluvione di Livorno è stata l’occasione per accanirsi contro il sindaco Nogarin e sul web sono esondate accuse di una superficialità disturbante, emblematiche di questa trasversale propensione. Se un comportamento meschino e autolesionista si propaga fra molte persone apparentemente in possesso del proprie facoltà, differenti per estrazione culturale e sensibilità politica, è giusto soffermarsi a riflettere con attenzione sulle cause.

 

 

Come è possibile, ci dobbiamo chiedere, che mentre il Paese si dibatte nelle branche della più tragica e pezzente ruling class apparsa sul Continente da che l’uomo sa servirsi di pietre bifacciali per tritare i vegetali, famelicamente attiva per lustri nello spolpare le carni della cosa pubblica sputandone le ossa sulla tavola della Costituzione e ancora oggi capace di pretendere legittimazione popolare senza passare dalle urne, una larga parte della cittadinanza maggiormente esposta alla precarietà si preoccupi delle lacune grilline… evidenti… quanto evidentemente incolpevoli del degrado che ci ha inghiottito? Come è possibile che mentre le istituzioni sono infestate da cavallette di biblica memoria, locuste dell’Abisso simili agli uomini ma grandi come equini e con le orecchie d’asino, il contribuente comune trascorra il proprio tempo libero sezionando i congiuntivi cannati da Di Maio, tutte le screziate gaffe della Raggi, ogni aria mal calibrata da Di Battista… come i bambini che sghignazzano dei peti altrui? Come si spiega il comportamento di chi, sodomizzato per anni a passo di lama da mostruose creature mitologiche, spende le residue energie per irridere coloro i quali cercano genuinamente, benché goffamente, di liberarlo dall’abuso ancora in atto?

 

 

In genere l’impalcatura logica di questo dileggio precettivo si fonda su una macroscopica fallacia: «Fa più danni un uomo onesto e incompetente di un uomo competente e disonesto». Solitamente per giustificarla si usa l’esempio del medico: «Voi preferireste un medico bravo e disonesto oppure uno onesto ma incapace?». Come è ovvio saremo portati a preferire il disonesto. Tuttavia si omette la discriminante: chi governa la cosa pubblica… più è disonesto e più è pericoloso. Perché si tratta di un parassita. Quindi è come un medico che prospera nella permanente infermità dei propri pazienti.

 

 

Si dirà allora che la postulata onestà grillina è tutt’altro che granitica, benché i casi a supporto siano per il momento poco eclatanti, specie parametrati al modus latrocinandi di molti partiti tradizionali. Quindi troveremo l’enfatica sottolineatura di un inadeguato progetto di classe dirigente, coerente risultato dell’improvvisazione sistemica. Inadeguatezza che anch’io ravviso, ma che mi porta perlomeno a escludere ministri più improvvisati di Fedeli, Lorenzin, Madia, Lotti o più incompetenti di Alfano. Infine si punterà il dito sulla prova del fuoco, cioè quella che si affronta quando si passa dall’opposizione al governo. Virginia Raggi è in carica ormai da più di un anno e Roma è ancora in condizioni drammatiche; ma credo che a qualsiasi accusa di inettitudine sia facile replicare, senza passare per benaltristi, con quattro cognomi: Rutelli, Veltroni, Alemagno, Marino. Io ho avuto il privilegio di battere le istituzioni nel periodo Wolemose bene e ne ho un ricordo disperato; ciò che non ricordo è una stampa generosa di titoli sul degrado capitolino. Inoltre, siamo sinceri: il nefasto «Non sapevo nulla» della giovane sindaca in relazione alla polizza di Salvatore Romeo… è nulla rispetto a quel «I bambini sanno» sceneggiato e diretto da Walter Veltroni. Come si giustifica allora questa insofferenza popolare verso i grillini? Ho cercato di trovare una risposta il più possibile credibile, sperando di non essere caduto nello psicologismo.

 

 

 

Escludendo per amor di Patria l’ipotesi di una sindrome di Stoccolma da rotto nel culo, temo che questa reazione nasca dalla cattiva coscienza di chi si accorge che la buona fede e la volontà, anche ottusamente brandite, oggi sono sufficienti per combattere nella disastrata arena democratica italiana. Vissuti da sempre sotto l’alibi – opprimente ma al contempo rassicurante – della delinquenza istituzionalizzata, percepita come causa prima della propria marginalità, crogiolandosi nei più frusti refrain del «sono tutti uguali», «se non sei figlio di non vai da nessuna parte», «in questo Paese non cambierà mai nulla», ora si rendono conto dall’azione altrui che facendo caparbiamente qualcosa, qualcosa può davvero succedere. Adesso che l’uomo qualunque, l’uomo come loro, si è convinto di poter governare il proprio destino, e in molte circostanze ci è riuscito, l’ignavo non glielo perdona, lo aggredisce, quasi che fosse quest’ultimo l’assassino del suo futuro. Non potendo prendersela con se stesso, con i propri fallimenti e la propria inettitudine – perché servirebbe un coraggio che non ha – se la prende con chi ha alimentato quello spirito di rivalsa che lui non è stato in grado di coltivare in se stesso per poi sfoderarlo in faccia al padrone. Rimasto schiavo, non gli resta che schernire chi prova ad affrancarsi e odiare chi ce l’ha fatta. Questo semplice articolo va letto, in filigrana, come incitamento per il popolo della destra – che ha ricevuto in eredità un giacimento culturale infinitamente più ricco dei pentastellati – a buttarsi nella mischia e sporcarsi le mani con lo stesso pertinace candore degli ultimi arrivati. «Toute nation a le gouvernement quelle mérite» affermava quel gigante di Joseph de Maistre: forse è il momento di meritarci qualcosa di meglio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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