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Era da molto tempo che volevo affrontare analiticamente ciò che abbiamo sempre afferrato con l’intuizione, quasi come percezione immediata dei principi primi. Devo confessare che in questo spazio ho trovato interlocutori profondamente intelligenti, e lo dico senza piaggeria, tali da farmi sentire in eminente compagnia nella mangiatoia di un comune intuire. Ma il metodo scientifico serve per rendere manifesto e immanente ciò che la trascendenza suggerisce. Nella speranza che questo approccio convinca chi cerca appigli concreti.

 

 

Osservazioni: negli individui si nota un’evidente convergenza fra le più significative convinzioni etico-politiche e il più superficiale aspetto esteriore; a tal punto evidente che guardando la faccia, lo stile, i tic di una persona puoi già sapere che convinzioni propugnerà, e dalle convinzioni etiche e politiche è possibile risalire con buona attendibilità alla faccia, allo stile e ai tic di chi le professa.

 

 

Domande: Come è possibile che le deliberazioni morali del singolo, teoricamente forgiate e custodite nelle segrete stanza della coscienza, siano invece, nella maggior parte dei casi, così accessibili, così trasparenti? E come si spiega che processi evidentemente funesti per la stragrande maggioranza dei cittadini – per esempio la precarizzazione del lavoro e del futuro, la cessione della sovranità popolare, le spoliticizzazione dell’economia, lo sgretolamento della tradizione, il livellamento degli universi simbolici, l’immigrazione di massa – vengano dai più vissuti con gaudio e allegrezza?

 

 

Ipotesi: le risoluzioni morali, che si calcificano in convinzioni etiche e quindi nelle loro posizioni politiche, nella stragrande maggioranza degli individui non sono il frutto di un’indagine interiore, di un sofferto setaccio critico, ma vengono scelte esattamente come si sceglie un oggetto di status e soggiacciono alle stesse logiche dell’acquisto di un bene materiale che si ritiene collocante. L’etica non si consolida dall’habitus aristotelico, come comportamento morale sedimentato e riaffermato, ma viene infilata come un abito prêt-à-porter, già confezionato da altri. Proprio come… indossando una borsetta di Vuitton o un foulard di Gucci quel tipo di donna si sente immantinente charmant, così indossando un’idea à la page ingaggia l’appartenenza che desidera esibire. A nulla serve macerarsi nell’incredulità cercando di far rinsavire chi vuole a tutti i costi acquistare a carissimo prezzo una patacca griffata fatta in serie. Lei la vorrà lo stesso, ostinatamente, contro ogni obiezione, perché non è interessata in alcun modo al contenuto, alla qualità intrinseca dell’oggetto, bensì al dispaccio simbolico.

 

 

 

Verifica. Prendiamo la locuzione radical chic, la cui natura intellettualmente pornografica ci suggerirebbe di vietarla ai troppo impressionabili. La maggior parte degli adepti che ne abbraccia l’intera Weltanschauung non lo fa certamente per convinzione politico-ideologica, né per inclinazione umanitaria, ma ne segue i precetti per pura esibizione. E il magnete di questo narcisismo fesso sta proprio nell’espressione: radical chic. Che evoca alta società, distinzione sociale ma libera da prammatiche austere, ispira audacia, indipendenza di pensiero, raffinatezza di gusto, ma con sfumature post-convenzionali. Quasi come «sinistra al caviale». Tante volte, intervistando rampanti massaie fra i banchi del salumiere, ho ascoltato questo refrain: «Sì, chiamatemi snob, chiamatemi radical chic, ma io la penso così!». Affermazioni che sottintendono proprio il desiderio di essere etichettati, che rivelano il più patetico compiacimento per il riconoscimento di un’appartenenza dai connotati eterodiretti.

 

 

Conclusioni. Questa gente, ovvero la gente comune – che di rado approfondisce tematiche filosofiche, geopolitiche o anche solo condominiali, ma che poi parla, che poi twetta, che poi vota – mira a ottenere ciò che l’arricchito vuole garantirsi comprando la Bentley e le aziende vitivinicole: certificati di status. Il marketing della signorilità intellettuale e morale oggi veicola status symbol chiarissimi e si polarizza contro «disvalori» altrettanto icastici. Parlare di Patria, di consuetudine, di famiglia, di identità, di disciplina, di manzo all’olio… non fa chic; è out. Fa retrivo. Fa zotico. Fa provinciale. La tendenza è il terzomondismo, il multiculturalismo, il giovanilismo, il genderismo, la cucina molecolare, l’apertura verso l’oppresso, purché esotico, eccentrico, etnico ed eteroscettico. L’industria culturale è scesa sino ai recessi della coscienza, disinnescando ogni sana reazione alla psicopatologia aspirazionale. Scegliere sul mercato delle idee quelle più alla moda, quelle più trendy, scimmieggiare dai tavolini di un sushi bar le moine ideologiche che magari furono di Beatrice Borromeo, per poi venir assorbite da Concita de Gregorio e colare infine nelle salivanti affermazioni di qualche opinionista da talk show, aiuta a sentirsi parte della classe dirigente, ma con lo spirito gregario tipico del parvenu. Moine ideologiche che seguono lo stesso percorso del maglioncino ceruleo ne Il Diavolo veste Prada. E l’accessibilità della comunicazione permette anche all’omuncolo o alla donnetta di paese di inventarsi fashion blogger dei valori più «in», per aspirational moral e luxury ethics sempre più in saldo. Il leopoldino come tipo umano di riferimento, gli elettori democratici come esercito che marcia dal basso nella straziante speranza di trovare emancipazione porgendo le mani al carceriere.

 

 

Come il borghese nell’Antico regime cercava di emulare lo stile di vita e il gusto dei «bennati», della nobiltà che lo tiranneggiava, l’arrampicatore flessibile di oggi vuole imitare e compiacere l’unica aristocrazia rimasta, quella dei plutocrati globali, filantropi e correttissimi. Il grande borghese del tempo, dopo aver decapitato la nobiltà che invidiava, si è insediato attraverso i silenziosi cannoni della finanza sul trono di quest’epoca; al di sopra delle culture, al di sopra degli Stati, al di sopra del diritto, istituendo un nuovo assolutismo. E ciò è efferatamente ironico, perché le idee che il nuovo signore mette strategicamente in circolo e che veicola con gli ambasciatori più cool, attraverso il cinema, lo sport, il giornalismo sofisticato – fa eccezione l’Italia, dove i vari Gad Lerner chic, Annunziata al caviale o Fazio Champagne incarnano maldestri ossimori – sono precisamente quelle che consolidano la sua signoria e con essa la schiavitù delle moltitudini; cui non resta che la modaiola ostentazione di un’ampiezza di vedute e di una ricchezza d’animo che ne decretano ineffabilmente la miseria.

 

 

 

 

 

 

 

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