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…non è soltanto impossibile, ma inutile, scriveva Ennio Flaiano. Quindi pensare di afferrarla dopo esserci stato per pochi giorni sarebbe sciocco. Cinondimeno, due o tre impressioni, almeno di Pechino, posso testimoniare. L’affollamento percettivo da cui pensavo di essere risucchiato… in realtà non c’è. Tutto scorre convulso, frenetico, ma in maniera quasi silenziosa, timorata. L’architettura anni 70 del suburbium è muta per definizione, come un inverno bolscevico. Gli svettanti grattacieli del business district non danno un’immagine di onnipotente razionalità funzionale, quanto di confusione sperimentale. Sembrano guardarsi prendendosi un po’ per i fondelli a vicenda, ciascuno con la sua architettura improbabile e la sua collocazione improvvisata. Non riesci a immaginarli pieni di gente. Sono circondati da passanti invisibili e sembrano invisibili ad essi. Il contrasto fra i vialetti che li costeggiano, presi da una città di provincia emiliana, e lo scatto di vertigine hi-tech verso il cielo è totalmente disconnessa, un’allucinazione. Pare di attraversare immobili ologrammi di immobili. Come se il capitalismo di Stato si fosse dimenticato di comunicare all’assemblea nazionale del popolo i propri piani e la faccia di Mao sulle banconote che pagano un cheeseburger da McDonald’s sembra uno scherzo da Grosso guaio a Chinatown.

 

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Poi scendi per la strada, a piedi, e la sensazione di scollegamento aumenta. Non si tratta dei radicati squilibri sociali comuni a molte metropoli del pianeta, con la Rolls-Royce Phantom che sfila il carretto a pedali: è qualcosa di antropologico. E’ come se l’appercezione fosse mutilata in quasi tutti gli indaffarati residenti. Il ciabattino sdraiato nel gelo del suo divano all’aperto conoscerà il calore dello Starbucks hot cappuccino che servono nella strada a fianco? Il mandarin-minchione che scende dalla Mercedes seimila con il borsello di Vuitton da ricco nuovo si accorgerà che c’è odore di uova marce per la strada? E allora nel formicolare della vita, che non si interrompe neppure la notte, trovi un po’ di autenticità solo cercando un volto. Lasciando emergere il pudore del contatto, l’unica cosa che l’esistenza non è riuscita a stritolare in queste anime. Fissi un inveterato bacucco che gioca a carte con sole sette dita, un matto mendicante che fuma signorilmente una sigaretta dal bocchino incenerendo con l’ascesi monacale della sua marginalità ogni nostra pretesa di commiserazione; un orologiaio di ciclopica trasandatezza che per farti capire quanto valgano i suoi pezzi ti segnala “no made in China!”. Poi due anziane imbacuccate che troneggiano su buffi sgabelli come sacerdotesse Wu pronte a far levitare le proprie cuffie sotto il demoniaco influsso degli shen. Ma quanto all’epifania di senso vi rimando agli scatti fotografici di Fredi Marcarini, che sa vergare con la luce le sfumature esistenziali che io non posso semantizzare con la tastiera.

 

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Ora qualche notazione a margine. Il temutissimo inquinamento non si è mai manifestato, forse per via dell’anticiclone siberiano. Cielo terso, aria da seggiovia dolomitica. E poi… metropoli globale? Estremo oriente multiculti oriented? Multinazionali di cosmopolita cazzimma? Così si vocifera, ma a Pechino nessuno sembra parlare inglese, Rosewood a parte. Anche se le facce allocchite delle hostess Air China alla richiesta di cold milk o sparkling water suscitavano già qualche sospetto, è stata una sorpresa. Per fortuna non abbiamo dovuto prendere un taxi, perché colleghi più navigati narrano di equivoci da mappamondo di Fra Mauro. L’unico a maneggiare artigianalmente il gergo occidentale era il nostro chaperon Bruce (in onore di Bruce Lee?… gli domando. “No… Bruce Willis!”… mi risponde), presentatosi in aeroporto in livrea al nostro atterraggio e riapparso esattamente dove lo avevamo lasciato per l’ora della partenza. Il dubbio non si sia mai mosso resta. Ragazzo dal cuore pulito come un vaso di terracotta e capace di pronunziare il sintagma, oggidì prossimo al farsesco, “Italy very romantic!”. Infine, la eco di una civiltà millenaria ormai soffocata, che abbiamo degustato nel superbo e marziale rito del tè fra le stanze di una dimora imperiale, mi è apparsa ancora in grado di sussurrare suprema armonia a chi avesse voglia di affilare l’orecchio. Mentre la nostra capitale imperiale si è da tempo nascosta al suo stesso ricordo.

 

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