I giornalisti e la politica
Gianluigi Paragone, Tommaso Cerno, Giorgio Mulè, Emilio Carelli, Francesca Barra, Primo Di Nicola sono i più illustri giornalisti che saranno candidati alle elezione del 4 marzo prossimo, trasversalmente, fra partiti e movimenti, fra forze conservatrici e riformiste. Una presenza in quantità e di qualità che non rappresenta tuttavia una rottura con il passato, quanto piuttosto la conferma di una interscambiabilità naturale fra l’impresa giornalistica e quella politica. Prima di loro c’erano stati, fra gli altri, Eugenio Scalfari, Michele Santoro, Dietlinde Gruber, Antonio Polito. E su questo tema mi era capitato di ascoltare una tavola rotonda del Parlamento Europeo dove intervenivano Antonio Tajani, David Maria Sassoli e Silvia Costa, anch’essi autorevoli ex giornalisti in seguito protagonisti ai più alti livelli di istituzioni sovranazionali.
In questi giorni ho seguito con attenzione le testimonianze degli ex colleghi pronti al governo della comunità, invitati nei salotti televisivi a raccontare le ragioni di questa scelta. Così come ho letto le opinioni dei futuri elettori, ondeggianti fra convinto supporto e accuse di servilismo premiato. Ora, premetto che non ritengo deprecabile che un giornalista scenda, o salga, in politica. L’esercizio dell’obiettività, della neutralità, dell’imparzialità… è già di per sè ideologia. Ne abbiamo avuto manifesta testimonianza nell’ultima puntata di Piazza Pulita, dove Corrado Formigli – campione di quel giornalismo che pretende di raccontare i fatti, la realtà, senza filtri – ha mostrato una volta di più faziosità subdola quanto palmare. Vittorio Sgarbi gli ha levato la pelle con nevrosi chirurgica, lasciando all’osservatore il macabro spettacolo della crudité di un filisteo. Ma se è facile togliere la maschera al sedicente super partes, più difficile è prendere coscienza dell’inevitabilità di una dichiarazione, anche nel momento in cui la si rifiuta. Il giornalista non è un aruspice che legge le interiora degli animali, ma neppure un reporter. Il suo compito, in particolare nel tempo dell’immediatezza universale, non è quello di scattare l’istantanea del reale, che è comunque irriducibilmente parziale e soggettiva anche in un reportage. Non serve impegnarsi nel vano sforzo della terzietà. Deve piuttosto essere in grado di abdurre: ovvero di osservare i fatti come qualcosa di correlato, ipotizzandone le cause al fine di prevedere altri fatti, di scommettere sulle conseguenze, di condurre chi legge da ciò che è a ciò che sarà. Di pensare in maniera non lineare e post-convenzionale allargando l’orizzonte critico. Mentre il mondo è pieno di giornalisti che dopo sapevano tutto prima. Quando si parla un poco pretenziosamente di “ricerca della verità”, si intercetta la volontà buona di chi intende abdurre solo dopo essersi ripulito da incrostazioni ideologiche, farisaiche, opportunistiche. Questo è il massimo della professionalità che ci è concesso.
Da lì in avanti si procede rendendo sempre maggiormente manifesta la propria idea di buona vita, chiarendo che cosa si ritiene auspicabile e che cosa nocivo. E in quel momento si fa politica, ovvero si interviene sulla realtà nella speranza di modificarla. I lettori rappresentano gli elettori e si conquistano con la lealtà e la lucidità. Escludendo i solipsismi, ogni pubblica rivendicazione morale è un’affermazione politica. Se un editorialista racconta i mali dell’Italia, dolendosene, fa politica, perché esprime implicitamente la sua idea di come l’Italia dovrebbe essere. Se in buona fede intercetta i responsabili, fa politica, perché costringe la politica stessa a correggersi. Per questo esiste un continuum naturale fra le due funzioni, fra le due dimensioni, e un equilibrio necessario. Ciò che si evince, per converso, è la buffoneria di quei colleghi che ostentano neutralità, obiettività, quasi come se le loro opinioni cadessero direttamente dalla navicella spaziale di John Rawls, per poi ritrovarli anni dopo schierati in una lista a sventolare bandierine. Paragone ha dichiarato: «Sono sempre stato un giornalista di parte, quindi non credo di presentarmi in una veste diversa. Ero già un attore politico. Non escludo dunque neppure di tornare a fare il giornalista. Mi considero come una sorta di inviato speciale nel Palazzo… ». Vero. Anche se la parte è cambiata. Ma qui è possibile osservare il percorso di ciascuno e pesarne l’integrità. Nulla vieta di rimanere delusi da un partito e trovare comunanza di vedute con un altro, magari nuovo. Cerno confessa: «Ero stanco di fischiare dalle tribune, volevo scendere in campo e provare a segnare». Poi aggiunge: «L’imparzialità nasce dal pluralismo delle voci, non da una singola voce. Mi piace la parola partito perché significa prendere parte». Tutto legittimo. Anche quando si sceglie tragicamente di prendere parte al Partito Democratico. Cionondimeno, vorrei chiarire che cosa mi ha spinto a commentare. Nella totalità di questi interventi, testimonianze, confessioni, di oggi e di ieri, da ex colleghi e possibili riferimenti istituzionali, non ho sentito una sola parola sul futuro dell’informazione. Non una riflessione sulla professione che lasciano. Sull’epocale transizione digitale, fra i media intesi come medium circoscritto e regolamentato e il riconoscimento di ogni smartphone come strumento di comunicazione di massa. Sul delirante dibattito relativo alle fake news. Su come garantire l’indipendenza dell’informazione dalla politica proprio in virtù di una così stretta affinità di inclinazioni e intenti. E dall’economia sovranazionale, verso cui la politica nazionale stessa è in posizione sempre più ancillare. Silenzio.
Compito del giornalismo oggi, urgente come mai prima, è la negazione dell’automatismo. La negazione di una verità immediatamente alienata. La negazione di una verità immediatamente manipolata. La negazione di ogni superstizione ideologica e del pensiero mercantile di dominio. La negazione dell’inevitabilità del reale. Il giornalista fa politica sorvegliando la politica. Vigilando sulla politica. Pungolando la politica. Potendo avvalersi di quella distanza dal potere rivendicata da Montanelli. Ma se i migliori giornalisti abbandonano la propria funzione per diventare politici stricto sensu, quis custodiet ispos custodes?