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Il più stupido e malefico strumento di propaganda politica in fieri, congegnato per azzerare ogni opposizione, è la presunzione di vivere in uno Stato di neutralità liberale. Ovvero la credenza, eterodiretta, che nelle democrazie liberali le istituzioni siano neutrali rispetto a idee controverse del bene e quindi giuste. Nelle scorse settimane il viceministro Luigi Di Maio è stato lungamente deriso dalla stampa e su Internet per aver dichiarato quanto segue: «Il reddito di cittadinanza sarà erogato su una carta che garantisce tracciabilità. Così si impedisce l’evasione e le spese immorali». L’ingenuità intellettuale del 5Stelle gli ha impedito di scorgere in quel “immorali” una debolezza semantica su cui i capovaccai più salivanti si sarebbero tosto gettati. Ma ora non voglio perdere tempo con le sciocchezze di saputelle asine e sciapide come la Serafini o con le freddure, pur sapide, di Spinoza.it, perché il tema è fra i più seri. Quindi è utile esordire con la personificazione della neutralità critica – presupposta anch’essa – per comprendere lo spirito del tempo. Mi servirò dunque delle parole del noto notista Massimo Franco, pronunciate a tal proposito chez Gruber: «Io, onestamente, non mi permetto di giudicare né cos’è morale né cos’è immorale, registro solo che c’è già grande confusione». In questa premessa operativa registro solo che c’è già l’assioma del comando. Perché in quel «io non mi permetto», si legge, in filigrana: «Il governo non deve permettersi, Di Maio non deve permettersi, nessuno deve permettersi di ostruire la “morale” operante con una morale alternativa!».

 

 

 

Ebbene, se questo rivendicato minimalismo morale dello Stato servisse da minimo comun denominatore del vivere insieme, kantianamente inteso come prerequisito alla libera formazione e al libero esercizio dell’autonomia individuale, sarebbe benemerito, per quanto forse velleitario in democrazie di massa dove i singoli sono disincentivati al vaglio critico – vedremo come – e nella maggioranza dei casi si limitano a muoversi per imitazione modaiola anche nella scelta dei valori. Ma chiunque osservi questa imparzialità da spettatore attento riconoscerà l’ambiente artificiale del palcoscenico, i cartoni della scenografia bidimensionale di una tragifarsa collettiva che gira il mondo con il medesimo carrozzone, replicando senza posa lo stesso tristo spettacolo di parte.

 

 

 

Ogni giudizio sedicente “neutrale” è infatti un’affermazione precisa sull’idea di buona vita, violentemente settaria. O meglio: una difesa, un catenaccio, un’arcigna protezione dello status quo. L’impalcatura, già scricchiolante, collasserà quando la tesi neutralista di una società multiculturale impatterà con culture poco avvezze a riconoscere i valori degli altri. Sarà giovevole osservare, nella cruda pratica quotidiana, la cooperazione sulla base della sola forza dei diritti di autonomia e in assenza di un accordo sulla validità morale delle pratiche che quei diritti consentono. Per esempio, vedendo interagire un anziano padre islamico con il proprio figlio, omosessuale maturo e pronto a presentargli il giovane fidanzato Pablo. Oppure un’educatrice femminista impegnata a spiegare ad un consesso di adulti pakistani che qui da noi non è concesso legare al letto le minorenni. E personalmente non sto più nelle flanelle in attesa di vedere la mia condomina del terzo piano, fondamentalista della raccolta differenziata, addottorare il rissoso congolese dell’Arco su dove smaltire un braccio scapezzato a colpi di machete, se nell’umido o nell’inorganico. Ma le frizioni multiculturali rappresentano soltanto la mefistofelica (o provvidenziale?) spiegazione dell’eterogenesi dei fini. Torniamo dunque alle consapevoli conquiste del 900 e alla neutralità liberale utilizzando l’esempio dell’aborto.

 

 

Nella coscienza acritica collettiva – ovvero l’insieme dei diktat di dominio felicemente introiettati – la politica non può imporre una particolare concezione morale, indipendentemente da quanto condivisa, dal momento che nessun individuo dovrebbe essere costretto ad abdicare alla libertà di prendere decisioni semplicemente perché le sue preferenze di valore non sono condivise da chi, in un determinato momento, rappresenta la maggioranza. Il governo, dunque, deve mantenersi neutrale rispetto alle concezioni della buona vita dei cittadini al fine di rispettare la capacità dei singoli di scegliere autonomamente i propri valori e le proprie relazioni. Malauguratamente, in questa “neutralità” c’è un giudizio di valore sottostante e dirimente: il feto non vive. Il feto non è una persona, neppure una persona in potenza – cui sarebbe assassinato a freddo ogni futuro – piuttosto un mero ostacolo di intralcio alla libertà della madre; è quindi legale e legittimo potersene sbarazzare. Esiste un’affermazione di principio più assoluta e al contempo più parziale di questa? Ma poniamo l’interpretazione temperata della controversia: il feto vive, ha dei diritti, ma i suoi diritti sono in competizione con quelli della madre e nessuno, fuorché lei, può decidere quali debbano prevalere. Lo Stato lascia dunque alla madre il diritto di scegliere. Questa è neutralità? Se io intitolassi una puntata del blog “Abortire è uccidere”, plausibilmente verrei invitato a rettificare dalla direzione e in caso contrario, minacciato di morte da qualche lettore. Oggi l’aborto è legale, legittimo, approvato. Ma in questa legittimazione non c’è neutralità morale, affatto. C’è una brutale asserzione: i diritti della madre possono essere esercitati contro i diritti del feto, mentre il contrario non è possibile. E chi pretende di difendere i diritti del feto contro quelli della madre, non ne ha il diritto: è anzi messaggero di una nuova calata dei Longobardi, un barbaro, un sottosviluppato indegno di vivere in tempi di progresso.

 

 

Prendiamo un altro esempio, contiguo: l’emancipazione femminile. Sullo scenario occidentale contemporaneo, una donna lavora e, lavorando, trascura i figli. E’ costume. E più la società è avanzata, più è costume. Un determinato esecutivo, anche appoggiato dagli elettori, non potrebbe mai imporre alle madri di prendersi cura dei figli a tempo pieno, perché cesserebbe di essere neutrale rispetto a visioni concorrenti e controverse dell’idea di buona vita. Ma è davvero così? Dietro una circostanza spacciata come “moralmente indifferente” vi sono ancora due affermazione di principio, due affezioni morali striscianti: la realizzazione professionale ha eguale dignità della realizzazione come madre; il diritto alla libera scelta della madre prevale sul diritto alla libera scelta dei figli – che magari vorrebbero la mamma accanto.

 

 

 

 

Pur avendo sedimentate opinioni a riguardo, non è mia intenzione disquisire sulla legittimità dell’aborto o della madre in carriera, quanto di far emergere la falsa neutralità di dominio. Calata dall’alto e poi issata dal basso come “liberale”, difesa con la proverbiale equanimità della magistratura e diffusa con la celebrata terzietà degli organi di informazione, ma che oggi galleggia nello stagno putrescente del dibattito pubblico come uno stronzo. Ciò accade perché l’intelligenza è una categoria morale in grado di governarsi, così come la stupidità è una categoria immorale che rivela irriducibilmente se stessa. L’intelligenza, come forza del giudizio, si oppone a ciò che di volta in volta è già imposto. La facoltà del giudizio, che resiste agli impulsi mimetici, rende giustizia agli impulsi più nobili che spingono verso un’autentica autonomia, resistendo alle pressioni del conformismo sociale. Alla giornalista e conduttrice Lilli Gruber – che lanciando il punto di Paolo Pagliaro domandava, con il caratteristico tono da interrogazione retorica: «Ma Di Maio ha davvero il diritto di dirci che cosa è morale oppure no?» – e a tutte le deliziose anime sicure di abitare in una Stato di neutralità liberale, dev’essere infatti sfuggita un’ulteriore minuzia: noi tutti viviamo – e loro sembrano integrate a meraviglia – sotto la sultanìa della political correctness. E che cos’è il politicamente corretto se non una dottrina che delibera su quale debba essere la buona vita per tutti?

 

 

Una dottrina aggressiva che si auto-attribuisce il diritto di dirci che cosa è morale e che cosa non lo è. Dogmatica. Intollerante. Totalitaria. Totalitaria perché come prima cosa ha ridefinito le regole d’ingaggio e così facendo ha manipolato il gioco. Lo scopo – da che dominio esiste in un orizzonte sociale – è l’annullamento del senso critico, prerequisito di ogni opposizione. E come si può fare per annullare lo spirito critico, che per definizione si sottrae agli argomenti della forza? Con l’arma della falsa virtù, ad esempio, che disinnesca ogni critica con il senso di colpa e il timore della rappresaglia del collettivo, rendendone impossibile la deflagrazione creativa. Per cui si prende un’idea buona, umanissima, inattaccabile – difendere i deboli, le categorie svantaggiate, gli oppressi – e la si estende fino al punto in cui ogni critica, disapprovazione, giudizio, diviene biasimevole, scorretto, soggetto a censura. Si prosciuga persino l’umorismo, come spiegava splendidamente John Cleese, poiché ogni forma di satira è indissolubilmente critica. Per cui se prima di elargire una freddura io devo fermarmi pensando, «oh cielo no, non posso rischiare di offendere questi, non posso rischiare di offendere quelli!», l’umorismo si volatilizza, con esso il senso delle proporzioni e ci ritroviamo vicini a un incubo orwelliano. Oppure con la ricerca della Verità, di cui il sultanato corretto ha ovviamente il monopolio, perché la Verità è “neutra”, “oggettiva”, non ammette pluralismi neppure nel regno del pluralismo. Ricerca a tal punto necessaria da giustificare soppressioni multimediali, sguinzagliando spie a caccia di fake news, ovvero di trasgressori che mettono in discussione quel monopolio. Per realizzare il rincoglionimento definitivo del singolo, premessa necessaria all’affermazione della stupidità planetaria, è bene che quest’ultimo sia incapace di negare consapevolmente la potenza apparentemente “neutrale” e fatale del decorso storico. Frasi come «l’immigrazione di massa è inevitabile», pronunciate dalla vicina di casa come dal giornalista progressista, ne rappresentano un esempio di successo.

 

 

 

 

Annullando il senso critico, l’autonomia del singolo non fa più alcuna paura ai manovratori sovranazionali e gli Stati possono tornare a esercitare la loro falsa neutralità, lasciando i cittadini liberi senza libertà, ammessi a scegliere fra alternative già vagliate in precedenza da altri. Si edifica così l’illusione dell’emancipazione democratica, dove la mano genitoriale dei “tecnici”, degli “amministratori”, dei “burocrati” – entità neutrali e bonarie per eccellenza – è sempre pronta a correggere le eventuali ragazzate dei popoli. La neutralità liberale è dunque il nome che il dominio dà alla propria faziosità illiberale. Che dopo aver prosciugato il senso critico delle moltitudini, le ha addomesticate con briciole di un’indipendenza degna di animali da cortile e con la verga della ritorsione generale, affermandosi dunque come prassi morale del male. Un male stupido e instancabile, che combatte per annientare ogni intelligenza sopravvissuta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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