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Sulla pagina ufficiale Facebook di Beppe Sala è apparso un video dal titolo “L’autonomia e il rapporto fra Comune di Milano e Regione Lombardia”. Il monologo del sindaco di Milano era magneticamente ozioso e autoreferenziale, ma un apprezzatissimo intervento ha colpito maggiormente la mia attenzione: «Chissà se anche i gialloverdi faranno mai un video con tutti quegli Adelphi alle spalle». In effetti, alle spalle del politico in maglioncino si notavano tante letterarie sfumature pastello. Tutte in fila, ordinatamente decorative, visibilmente intonse, degne degli intellettuali da quarta di copertina che Sala rappresenta. Un acuto amico non si è potuto esimere dal commentare come la sinistra sia tornata a fare lotta di classe: al contrario. Una volta il gauchiste si poneva in una posizione di retroguardia, guidando con il lume della conoscenza i poco eruditi operai fuori dalla caverna del lavoro salariato; oggi i difensori dei figli di quegli stessi salariati sbeffeggiano i proletari “gialloverdi”, che non hanno avuto il privilegio di sfogliare molte introduzioni vicino al camino. Tale amabile posa di superiorità culturale e morale, così squisitamente liberal, mi ha ricordato un episodio occorsomi qualche giorno prima, che vado a raccontarvi.

 

Venerdì pomeriggio ero seduto sulle seggiole in ferro battuto di uno di quei caffè letterari meneghini in cui si radunano gli elettori di Sala. Al mio fianco due siure, distillato purissimo della categoria di cui sopra, che si dolevano dell’umidità dei tempi e di Salvini. «Guarda quel poveretto», indicando un berbero perdigiorno un poco barcollante che deambulava verso Piazza Simpliciano; «aspetta, Isadora, hai moneta?». «Io no, ho solo 5 euro». Al che mi immolo per la causa, offrendo in olocausto il mio stesso borsellino per massaggiare le colpevoli coscienze di Corso Garibaldi e dell’Occidente tutto. Tiro fuori un euro e chiamo il viandante. Il buon uomo si avvicina, prende la moneta dopo sette tentativi, e quindi emette un urlo belluino e totalmente immotivato in direzione delle signore, forse memoria di un grido di guerra della propria tribù, così forte da farne stramazzare una dalla sedia. Quella grida a sua volta, trascinandosi a terra la tisana, facendo strillare l’amica, terrorizzata. Al che escono altre siure dal caffé, la prima tenendo il frullato con una mano e la cofana con l’altra. «Quell’uomo ci ha aggredite!», tuona la caritatevole matrona con il culo per terra… e tutte, istintivamente o forse ideologicamente, affondano gli occhi inviperiti nella mia direzione.

 

 

Ancora un po’ avvelenato dall’esperienza, tornai a casa con l’amarezza nel cuore e la mia anima intossicata cercò siero in una commedia sofisticata di Cristina Comencini. Non paga, dopo avermi suggerito di inghirlandare la vasca da bagno con candele alla rosa bulgara, mi implorò di abbandonarla nell’ideale abbraccio di Marella Agnelli, comandandomi di prendere in mano La piccola commedia di Schnitzler e un calice di Pinot nero biodinamico di Borgogna, introverso, ma affabile. Non volumi rilegati in pelle di cucciolo di foca come quelli accarezzati da Jean Floressas Des Esseintes, ma un quaderno minimalista, avvolto in ecosostenibile cartonato da culo Adelphi 324. Che friccicore intellettuale! Che brivido tonificante! Provai tosto le stesse inquietudini oniriche di Pierfrancesco Majorino e fui strattonato da una forza invisibile, che guazzando sotto la coltre di schiuma alla calendula maltese, con la ruvida risolutezza proletaria di Carlo Calenda, mi afferrava gli attributi ricordandomi che noi sfruttati, diseredati, precarizzati, rinnegati, siamo pur sempre cittadini democratici; siamo pur sempre – sempre e per sempre – cittadini europei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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