Credere nella giustizia
Come tutti voi, credo nella Giustizia. Credo anche nella Verità. Nel buon governo. Nella buona amministrazione. Nel vino nettare degli dei. Nel masticazzo perfetto. Tuttavia, anche ammettendo che virtù e scienza coincidano, siamo in grado di comprendere la distanza qualitativa che esiste fra il Principio – universale, aureo – e gli agenti che ne traducono i precetti in una realtà codificata – particolari, grigiastri. Credere nella Verità non significa credere a tutto ciò che scrivono i giornalisti. Tanto è vero che in genere le due cose si escludono a vicenda. Credere nel buon governo non ci impedisce di criticare l’azione dei governanti, anzi, lo rende necessario per pungolarli verso l’ideale. E così via. Eppure, quando si parla di giustizia – quella che abita negli uffici giudiziari – si crea una sorta di fallace metonimia per cui i giudici incarnerebbero la Giustizia come virtù cardinale, quando tutt’al più possono aspirare a garantirne qualche impercettibile barlume in terra attraverso i difettosi strumenti della legge e del proprio comprendonio. In questi giorni – che si trattasse della Diciotti, di Salvini, dei Renzi o di Formigoni, quindi senza pregiudiziali epidermiche – continuo a leggere e ascoltare refrain di questo tenore: «Nessuno si sottragga alla giustizia!», «Le sentenze si rispettano», «Bisogna credere nei magistrati», «La fiducia nella giustizia è impregiudicata», «Credo nella giustizia», «Che la giustizia faccia il suo corso!», «Non dobbiamo mettere in discussione la giustizia». Io sono più laico, meno osservante. Il giudice – organo e funzionario – è indicativamente come la legge-legislatore, la stampa-giornalista, l’istruzione-docente, l’amministrazione-burocrate, l’ordine pubblico-vigile: può essere saggio oppure sciocco, scrupoloso o superficiale, fine o grossolano, benevolo o malevolo, prenderci oppure cannare. Come ogni altra impresa umana.
L’indipendenza della magistratura – prerequisito a un sano operare – è cosa diversa dalla petizione di principio sulla sua “rispettabilità”. Il rispetto, la deferenza, si conquistano, non si esigono. Da ermeneuta dei fatti non esigo ossequio in quanto giornalista; cerco di meritarlo, sapendo che la base di partenza è sotto il livello di un immigrato clandestino che fugge da una moglie cacacazzi. Mentre al magistrato si elargisce. Ciò deriva da una mera questione di potere: la non giudicabilità del giudice lo rende insindacabile. Nei casi infelici – che esistono in natura e soprattutto in Italia – l’insindacabilità conduce malauguratamente all’impunità… e l’impunità non è mai giusta, perché asconde la colpa o anche solo la cantonata. Ove manchi separazione della carriere e l’esistenza di un organismo esterno che valuti – e nel caso sanzioni – l’operato dei magistrati, si allargherà lo scarto che separa la giustizia dalla virtù. In attesa dunque di una riforma vasta e profonda, restiamo umani e non postuliamo un’esemplarità cosmogonica, un inquietante pantheon di arbitri che non è di questo mondo.