I Professori come Benigni: asserviti?
Tanto rumore per nulla. I fiumi d’inchiostro versati sulla “Buona Scuola” sono stati del tutto infruttuosi. La Cassazione, infatti, ha verificato le sottoscrizioni utili a far sì che la discutissima legge 107 venisse sottoposta al vaglio popolare di un referendum ed ha rigettato la richiesta: mancano poche migliaia di firme. Il caos social scatenato dalle ingiustizie che il governo Renzi avrebbe prodotto con la legge in questione, insomma, non ha prodotto niente di giuridicamente rilevante. Quello che gli intellettuali chiamano il capitalismo totalitario, il male ideologico per mezzo del quale si punterebbe a ristrutturare l’intero mondo scolastico riducendo gli studenti al mero ruolo di consumatori di competenze ed abilità, ha trionfato. Nonostante il marasma generale denunciato dall’intero sistema, la babilonia degli uffici, le critiche alla figura del preside “sindaco”, la conseguente paura dell’incentivazione al clientelismo, i ritardi per l’avvio dell’anno scolastico, le dilazioni per le immissioni in ruolo, i drammi per la mobilità e la consequenziale separazione delle famiglie, nonostante le accuse d’opera d’ingegneria sociale, il risultato pratico del malcontento è stato pari allo zero.
Si può discutere per giorni rispetto i complessi ostacoli burocratici nascosti nell’operazione di raccogliere un numero sufficiente di firme per un referendum, resta il dato centrale: per una volta, nella recente storia d’Italia, sembrava che i professori, gli studenti, alcuni presidi ed il personale scolastico si fossero compattati contro un provvedimento di un governo di centrosinistra. Sembrava soltanto, evidentemente. Pareva fosse la volta buona, questa, per dimostrare la scollatura tra l’intellighenzia ed un servilismo di base che ha sempre contraddistinto la scuola italiana nei confronti del progressismo più o meno pronunciato. L’occasione per smentire la partigianeria dell’universo culturale italiano. Niente di nuovo, tuttavia, dalle cattedre d’Italia. Tante piccole manifestazioni organizzate per lo più dalle puntuali combriccole studentesche che in questo periodo dell’anno, prescindendo dall’oggetto discusso, una settimanella di occupazione se la regalano comunque.
Pare la parabola di Roberto Benigni sul referendum costituzionale: “Ho dato una risposta frettolosa, dicendo che se c’è da difendere la Costituzione, col cuore mi viene da scegliere il no. Ma con la mente scelgo il sì. E anche se capisco profondamente e rispetto le ragioni di coloro che scelgono il no, voterò sì”, disse a Repubblica. Vorrei ma non posso, in poche parole. Stessa medesima misura nel mondo della scuola: gli sarebbe piaciuto tantissimo concretizzare la protesta contro un provvedimento per cui sono stati sollevati polveroni a non finire eppure non è stata partorita un’azione politicamente tangibile. La speranza era quella di vedere la sempre più bistrattata classe degli insegnanti dimostrare una capacità mobilitativa degna di nota. Autenticazioni e certificazioni non avrebbero dovuto rappresentare un grosso problema in un contesto denso di burocrazia come quello scolastico. La sindrome di Benigni, però, ha colpito anche in questo caso: la scuola italiana è la più bella del mondo e va tutelata ad ogni costo salvo quando a cambiarla nelle fondamenta sono degli storici alleati. C’è un passaggio il 4 di Dicembre nel quale la separazione d’intenti tanto decantata potrebbe venir fuori: se c’è una parte dell’Italia abituata a recarsi alle urne è proprio quella proveniente dalle classi. La sensazione è che il cuore abbia detto di no ma che il cervello dirà di sì. Come sempre.
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