Quando abbiamo sentito che una delle priorità di Draghi era la scuola, c’è stato un boato di esultazione. Finalmente.

Quando sono trapelate  quali fossero le prime cose da fare per la scuola, c’è stato un boato di silenzio. Perchè anche il silenzio può essere tremendamente esplosivo, quando la meraviglia è troppa. Sia quella buona che quella negativa. E quello che abbiamo sentito buono non è.

Per due motivi.
Primo: l’ipotesi di prolungare l’anno scolastico era già stata avanzata dal ministro Azzolina, facendo gridare allo scandalo perché era il ministro Azzolina. Quindi, non è novità. Evvabbè.

Secondo:  sentir dire che la Dad è stato tempo perso e che va recuperato con 15 giorni di ulteriore scuola fino a fine giugno,  non si può proprio ascoltare. Anche se lo dovesse sostenere e confermare Draghi.

Perché la dad non è stato tempo perso e perché in 15 giorni non si recupera niente, o perlomeno niente di quello che serve davvero. Quello che mancherà alla fine di questi ulteriori 200 giorni di scuola e di diDADdica in era Covid (da aggiungere a quelli dello scorso anno), non sono le pagine di un libro. E se anche fossero in una qualche minima misura misurabili in pagine, non sarebbero mai recuperabili con due settimane di prolungamento nel giugno di un anno pesantissimo.

La Dad piuttosto è stato tempo salvato. Salvato dal nulla pneumatico che sarebbero stati  i mesi durante la pandemia, dove i prof hanno avuto la capacità e la voglia e il merito di rimettersi in discussione, ripartire da zero, imparare di nuovo per insegnare in un altro. Hanno parlato per ore, giorni, mesi davanti a bollini spenti di ragazzi spenti, cercando di motivarli a riaccendere e riaccendersi per guardarsi e andare avanti.

Gli insegnanti hanno messo in atto una rivoluzione vera, dal basso. Di quelle che nessun politico fino ad oggi mai, è riuscito, e neanche ha voluto. Umiltà e coraggio. Fantasia e organizzazione. E tutto sempre con lo stesso stipendio. Poi c’è anche chi non ha fatto nulla ma questa volta lo hanno capito benissimo tutti, dai colleghi insegnanti, ai presidi, ai ragazzi e pure loro stessi. Essere docenti-fantasmi dietro la tastiera, paradossalmente, è più difficile.

Se gli insegnanti si risentono, questa volta, hanno solo ragione. E, potrei azzardare,  meno male che hanno ancora la forza di risentirsi, invece di scrollare le spalle, mettere tutti 9 in pagella così sono contenti genitori, ragazzi e l’eventuale compagnia cantanti, oppure tutti 5 così da farla pagare a  qualcuno…

Ma i ragazzi non sono solo studenti. E la scuola non è sempre prima di tutto il tempo, lungo stralungo e pieno sempre più pieno, buono a far da baby sitter a genitori che altrimenti – e questo è un fatto – non sanno come gestire i figli. Per troppo tempo la scuola è stata trattata, usata come “un servizio sociale” . E in qualche modo lo è, ma i due aspetti poi si sono confusi, intrecciati per supportare, riempire, parare i buchi di una società che non sa rimodellarsi al futuro.

Al banchino (con o senza rotelle è la stessa cosa), ascolta, ripeti e stai seduto e zitto. Poi a 20 anni li vorremmo tutti creativi, intraprendenti, pronti a mettersi in gioco con il resto del mondo quando c’è chi non ha mai osato neanche alzare la mano in classe per una timidezza mai incoraggiata con l’unica conseguenza di avere un voto più basso in condotta perché “non interviene in classe”.

Scrive Umberto Galimberti
I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, fiacca la loro anima, intristisce le passioni. Bisogna perciò educare i giovani a essere se stessi, assolutamente se stessi.
Questa è la forza d’animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra. Di forza d’animo hanno bisogno i giovani soprattutto oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell’esistenza e incerta s’è fatta la sua direzione.
Alla base dell’assunzione delle droghe, di tutte le droghe, anche del tabacco e dell’alcol, c’è da considerare se la vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si dà, se non c’è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
Questo niente oggi pare ancora più nulla. Niente programmi possibili, niente futuro, né a breve né a lunga scadenza. Inchiodati al qui e all’ora, camminano quando possono, mascherati con l’igienizzante in tasca in un paese con le saracinesche chiuse dove le pubblicità sui muri sono quelle delle pompe funebri e dei laboratori di analisi. Se poi il tessuto si sgretola o è già sfaldato, sfilaccicato non pare poi così strano anche se fa orrore,  che si incontrino per spaccarsi la faccia a vicenda pur di dimostrare di esistere.
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