Marco Pannella il gigante, lo statista, il profeta dei diritti civili. Ha ricevuto elogi sperticati, riconoscimenti generosi e giusti, il leader dei radicali, morto a 86 anni dopo una vita di battaglie. E il suo movimento ha finalmente meritato analisi serissime. La “quercia caduta” dunque era buona, grande e viva. E a sinistra se ne sono accorti. Reazione comprensibile, amplificata dall’effetto dei social network, che inducono alla commozione momentanea, alla fiammata emotiva, al coro dei “riposi in pace”. Su facebook, in questi giorni, i pannelliani hanno sfiorato la maggioranza assoluta, ma è forte il rischio dell’ipocrisia, dell’unanimismo senza autocritica, dell’elogio funzionale a nuovi oblii. Anche per questo viene quasi da preferire la critica irriducibile al complimento insincero, che non costa niente e non porta niente. La grande ondata di ammirazione postuma stride infatti con il trattamento che ai Radicali è stato riservato in 60 anni di storia: un misto di indifferenza e diffidenza, spesso irrisione. E lo conferma, senza volerlo, un assessore milanese che incarna in pieno la tradizione dei post-comunisti italiani, Pierfrancesco Majorino. “È stato uno dei più potenti innovatori della nostra storia politica e “civile” – scrive il capolista del Pd alle Comunali– Potevi amarlo o detestarlo. O amarlo “e” detestarlo. Ma non potevi ignorarlo mai“.

Amarlo o detestarlo.

Molti lo amavano, è vero. Liberali e socialisti lo amavano Pannella, perché in fin dei conti era uno di loro. E con loro combatté per la giustizia giusta. Chiamava “compagni” i suoi, aveva un orizzonte diverso da quello dei liberalconservatori, ma è dalla sinistra del Pli, è dalla cultura crociana che era uscito fuori questo fuoriclasse. “Pannella è figlio nostro – aveva scritto Indro Montanelli – un figlio discolo e protervo, un Giamburrasca devastatore che dopo aver appiccato il fuoco ai mobili e spicinato il vasellame, è scappato di casa per correre le sue avventure di prateria. Ma in caso di pericolo o di carestia, ve lo vedremo tornare portandosi al seguito mandrie di cavalli e di bufali selvaggi, quali noi non ci sogneremmo mai di catturare e domare”. E gli avversari non lo detestavano: i cattolici lo rispettavano e gli riconoscevano nobiltà d’animo, idealismo e a suo modo un afflato religioso e spirituale. A destra gli erano riconoscenti, perché amava spezzare la logica ferrea e conformista dell’arco costituzionale. E parlava ai congressi missini. Forse lo detestavano gli altri. Grandi progressisti, intellettuali indipendenti di sinistra, vecchi potenti e recenti demagoghi. Non erano certamente dalla sua parte i comunisti. Non lo amavano perché era garantista, voleva la separazione delle carriere e la fine dell’azione penale obbligatoria. Predicava la non violenza e aborriva il pacifismo (“con rispetto parlando”). Si era fatto fotografare con l’uniforme da soldato croato durante la crisi jugoslava.

Negli anni Novanta, poi, Pannella si era schierato con Silvio Berlusconi, tanto che un piccolo plotone di radicali venne eletto nelle liste di Forza Italia. Profondamente anti comunista, liberista convinto, amerikano “col k” come era solito dire, grande difensore di Israele – che voleva nell’Unione europea – paladino del Tibet non indipendente ma libero (la bandiera l’ha portata con sé nel suo ultimo viaggio). Democraticissimo, non aveva paura di battersi per il presidenzialismo (una delle idee di Piero Calamandrei che a sinistra hanno sempre oscurato). La sua ascendenza ideale era costruita su un “mantra” di grandi nomi che comprendeva Piero Gobetti, i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e magari Don Luigi Sturzo. Comunque preferiva Luigi Einaudi e Alcide De GasperiPalmiro Togliatti, con cui peraltro aveva incrociato le penne in un duello polemico.

E i tanto citati diritti civili? Divorzio e aborto? La verità è che aveva trascinato un recalcitrante Pci nella battaglia referendaria (voluta dai cattolici per abrogare leggi approvate grazie all’iniziativa di liberali e socialisti come Loris Fortuna). Questo impeto anticlericale aveva creato non pochi imbarazzi ai comunisti, che accusavano questo borghese individualista di distogliere le masse operaie dalla (declamata) lotta di classe. Le riforme, infine. Voleva riforme, sempre e ovunque, altro che rivoluzione: il suo ideale erano i partiti anglosassoni, due o tre “partitoni” frutto del sistema maggioritario uninominale. Sfidava la “trimurti” dei sindacati invitandoli ad “autobullonarsi”. Negli anni Ottanta già vedeva il pericolo di un debito pubblico mostruoso. Denunciava il consociativismo Pci-Dc. E osavo scardinare il totem per antonomasia, l’articolo 18.

Per cattolici, liberali conservatori era un avversario, insomma. Ma a sinistra molti lo detestavano. E molti lo ignoravano per questo. Per non dovergli rispondere, per non fare i conti con lui. Per non dover ammettere che una sinistra normale avrebbe dovuto essere più radicale che comunista (e infatti Pds, Ds e Pd assomigliano più a Pannella che a Enrico Berlinguer). Insomma, lo detestavano e lo ignoravano, a sinistra, perché lui aveva ragione e loro torto.

AlGia

panbella

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